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    Stragi, silenzi e ipocrisie: dopo anni di guerra a Gaza e in Ucraina, bisogna ricostruire spazi di confronto libero

    16/09/2025 Roma, Manifestazione in sostegno di Gaza. Credit: Francesca Bolla / AGF

    Il genocidio di Israele nella Striscia e la complessità del conflitto con la Russia sono stati ridotti a una serie
di slogan. E la critica additata come nemica. Oggi invece che è scoppiata la bolla mediatica, tutti,
dai governi alla stampa, salgono sul carro dell’indignazione.
Meglio tardi che mai

    Di Giulia Cerino
    Pubblicato il 17 Set. 2025 alle 14:21 Aggiornato il 17 Set. 2025 alle 15:07

    Finalmente. Finalmente è arrivata la condanna quasi unanime e la fine dei tentennamenti. Negli ultimi giorni sulle pagine dei maggiori quotidiani, le grandi firme del giornalismo nostrano hanno trovato il coraggio di dire che sì, a Gaza è in corso un genocidio e sì l’azione militare di Israele è sproporzionata e sì, stanno ammazzando i civili inermi e questa è una cosa inaccettabile per l’umanità e per il diritto internazionale. Finalmente non ci sono più solo l’Onu e le ong a condannare pubblicamente le violenze. Finalmente non c’è più solo la società civile a urlare il proprio sdegno. I paladini del politicamente corretto si sono svegliati dal torpore ed eccoli lì tutti a dire che Netanyahu è brutto e cattivo e che ha manipolato la realtà e che attraverso l’uso di immagini distorte ha esercitato la sua impunità sviando l’opinione pubblica e agendo contro ogni legge. Meglio tardi che mai, certo.

    Doppi standard
    Peccato che nel frattempo sono passati due anni dal 7 ottobre 2023 e sono morte 60mila persone. Due anni durante i quali “bisogna essere cauti perché Israele è una democrazia”, perché “Hamas diffonde fake news”, “perché il genocidio non è provato”, “perché Israele ha il diritto di difendersi”. Due anni prima di trovare il coraggio di schierarsi dalla parte dei più deboli. Due anni di mezze parole, dico e non dico. Due anni per esercitare l’empatia nei confronti dei palestinesi. Due anni durante i quali chiunque si è permesso di mettere in dubbio la giustezza della rappresaglia israeliana è stato accusato di essere antisemita. Due anni durante i quali è stato sospeso il diritto di critica in nome dell’occidentalismo ideologico, spiccio e cieco. E anzi, guai a dire che il governo di Israele è prepotente perché se lo fai “odi gli ebrei”, se lo fai “hai scordato l’Olocausto”, se lo fai “alimenti l’odio”, “sei fascista”. E allora, meglio aspettare che la responsabilità della condanna esplicita se la prenda qualcun altro e nel frattempo silenziare il dissenso e la critica legittima. Come nel caso di Francesca Albanese che per anni ha denunciato il genocidio e come ringraziamento è stata criminalizzata dai benpensanti e trattata senza rispetto.
    In molti hanno giocato sporco sovrapponendo il concetto di antisionismo, legittimo e politico, a quello di antisemitismo. Persone che nella vita si occupano di tutt’altro e che in un baleno sono diventate esperte di geopolitica, hanno pontificato dicendo le prime cose che gli passano per la testa, basta che non sia nulla di compromettente sennò in televisione a parlare non ti invitano più. Proprio come nel caso della guerra in Ucraina: guai a esprimere dei dubbi circa la convenienza per gli ucraini stessi di proseguire la guerra. Guai a dire che il Donbass è storicamente territorio russofono. Guai a dire che no, gli italiani non vogliono il riarmo e no, la Russia non ha nessuna intenzione di invadere l’Europa. Guai a dire che l’occidente ha delle colpe. Se lo fai sei “amico di Putin”. In entrambi i casi la responsabilità è delle istituzioni e della stampa che hanno messo in scena la saga dei “due pesi e due misure”, il doppio standard. In entrambi i casi, la narrazione dominante si è ridotta a uno sterile scontro tra posizioni ideologiche, i buoni contro i cattivi, i giusti contro gli ingiusti, la democrazia contro il terrore. In entrambi i casi, si è creata una “bolla” mediatica e comunicativa all’interno della quale solo alcune idee sono ammesse mentre le altre vanno criminalizzate tout court.

    Polarizzazione del dibattito
    Poi un giorno si sono svegliati e tutto è cambiato. Sono finalmente d’accordo con noi: a Gaza è in corso una strage. E giù tutti insieme a provare empatia, pietà, sdegno, dolore e vergogna per l’azione israeliana ormai ufficialmente sproporzionata. Via, tutti sul carro dei poveri palestinesi. Meno male, ma dove eravate fino a ieri? E perché per due anni avete titubato di fronte ai morti? Non bastavano le immagini dei bombardamenti che già pochi mesi dopo il 7 ottobre erano ovunque sui social network? Ospedali distrutti, bambini affamati, uomini e donne disperati. Non bastava per prendere subito posizione?
    Oggi, a fare le spese di tale cecità è il dibattito pubblico diventato ormai povero e ripetitivo. Le conseguenze sono catastrofiche. La polarizzazione e la censura del dissenso legittimo hanno infatti portato al risultato opposto: un aumento della radicalizzazione e dell’intolleranza da parte di chi dopo il 7 ottobre è stato privato di una voce e di una rappresentanza. La scienza politica ci insegna che la repressione non elimina il dissenso, anzi lo spinge verso forme più estreme. L’assenza di canali legittimi alimenta la radicalizzazione perché la percezione delle ingiustizie è un catalizzatore di violenza. L’americano Ted Robert Gurr, uno dei più importanti scienziati politici del XX secolo, parla di «deprivazione collettiva»: quando non c’è altra via per fare valere i propri diritti alcuni gruppi ricorrono alla violenza politica. E no, qui non si tratta di giustificarla. La violenza va sempre condannata ma, come spiega Gurr, «le persone non si ribellano perché sono povere. Si ribellano se si sentono tradite nelle loro aspettative». Dunque prendiamoci le nostre responsabilità. Le condanne postume e pubbliche sono un passo importante ma non sufficiente. La sfida oggi è quella di ricostruire spazi di confronto libero in cui si possano conoscere le ragioni delle parti coinvolte senza preconcetti ideologici e senza la paura di essere criminalizzati o minacciati. Alla fine, solo la legittimazione del dissenso pacifico potrà spezzare il clima d’intolleranza e odio che si è creato (da entrambe le parti, sia chiaro). Finora abbiamo sbagliato strada ma forse c’è ancora una possibilità per evitare che la nostra società imploda. Vi prego, non sprechiamola.

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