Sono trascorsi due anni dall’inizio del conflitto atroce in corso a Gaza. L’odioso attentato compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 ha fatto piombare la popolazione ebraica ancora una volta nel terrore: una disgrazia orribile. Inaccettabile. La risposta di Israele, feroce e prolungata oltre ogni giustificazione, ha volontariamente calpestato per ventiquattro mesi un intero popolo senza che nessuno fermasse il tiranno Netanyahu, favorendo, tra l’altro, la rinascita di un sentire comune profondo a favore della causa palestinese. Ecco alcuni fatti da tenere a mente e altri miti da sfatare sul cortocircuito mediatico, politico e culturale che ha innescato e riacceso una guerra eterna.
1. Non esiste alcun nesso tra i cortei pro-Pal di queste settimane e Hamas (strumentalizzazione forzata dei quotidiani di destra e di parte del governo italiano). Così come non esiste correlazione fra le piazze a sostegno di Gaza e un riscontro politico nelle urne elettorali (Marche docet).
2. Ne consegue che la missione cosmopolita, unanime e pacifica della “Flotilla” – nata per scuotere la passività di Stati e governi – è stata vittima di una campagna denigratoria senza soluzione di continuità. Eppure, nel suo spirito, è sembra davvero la figlia naturale di quella dannata generazione del G8: non quella violenta e facinorosa, come vorrebbero i propagandisti del nulla, ma quella che si è ritrovata orfana di un mondo cambiato troppo in fretta che nessun movimento politico e intellettuale ha più saputo interpretare. E per questo rimasta ancorata a un’infanzia ideale.
3. Quelle proteste di piazza (a memoria le più partecipate da decenni a questa parte) sono esemplificative della distanza siderale tra movimenti volontari nati dal basso e mondo delle istituzioni tutte (siano esse giornali, parlamenti, esecutivi, entità sovranazionali). Le quali istituzioni non solo non riescono più a rappresentare chi oggi si sente perso e smarrito davanti alle disumanità atroci di cui tutti ci siamo resi complici in questi anni; non riescono nemmeno a capire. Come i cavalli con i paraocchi, non comprendono che chi scende in piazza è stufo di vivere in un mondo così ingiusto, più che essere etero-diretto da Schlein o da Fratoianni (e infatti le urne sono vuote).
4. Se è vero che il “piano Trump” rappresenta l’unico straccio di carta su cui oggi si possa tentare di costruire una tregua, è anche vero che sa profondamente di vecchio. Di certo non sarà risolutivo nel lungo termine, calato dall’alto come è, volto non tanto a ristabilire un equilibrio reale quanto piuttosto ad assopire solo temporaneamente le tensioni nell’area. Esistono infatti almeno tre generazioni distinte all’interno di Hamas: tutte con pareri e posizioni distinte l’una dall’altra. L’ala giovanile è quella più intransigente e intollerante nei confronti dell’accordo con Israele, dunque meno disposta ad accettare condizioni e ultimatum, il che rende ogni negoziato estremamente difficile. Alla luce di questo occorre chiedersi: la risposta di Israele al 7 ottobre – la resa incondizionata di Hamas e la sua «guerra al terrorismo» – ha davvero raggiunto l’obiettivo di neutralizzare i miliziani oppure, al contrario, ha solamente contributo a radicalizzare una più agguerrita e arrabbiata generazione che grida vendetta?
5. C’è infine un ultimo tema di cui forse si parla troppo poco e che però aleggia in modo ambiguo sopra tutta la comunità internazionale: vale a dire il ruolo geopolitico di Israele d’ora in avanti. Se infatti, da un lato, si ipotizza una completa smilitarizzazione della Striscia e la creazione di un organismo internazionale capace di amministrarla (con Tony Blair come garante), resta incerto se a Israele verrà concesso di mantenere il ruolo di “poliziotto del Medio Oriente”. Cosa abbiamo imparato, in questi due anni di conflitto, sui limiti morali e militari che Israele può o non può oltrepassare? Il suo status di guardiano dei valori dell’Occidente, sostenuto incondizionatamente dagli Stati Uniti, andrebbe almeno discusso, per ridefinire con chiarezza il perimetro d’azione che, come europei, riteniamo accettabile.
6. Due parole, infine, sull’Europa: se è vero che gli equilibri globali di oggi impongono una riflessione profonda e più articolata sul riarmo europeo, e quindi su una difesa comune, capace di fungere da deterrente e prevenire potenziali minacce esterne, è anche vero che il vecchio continente sembra non riesca a pensare ad altro. Questo è un problema. Poiché mina le fondamenta del pensiero europeo, tradisce le promesse dello spirito di Ventotene, e indebolisce l’identità del continente: una Ue ossessionata dalla sola difesa rischia di smarrire la propria voce culturale e sociale, il proprio primato nella scienza, il proprio pensiero illuminista e umanistico, a favore di chi nutre aspirazioni di difesa o di conquista territoriali e definisce la propria dimensione geopolitica solo nel dibattito sul nuovo ordine mondiale.
Leggi l'articolo originale su TPI.it