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    Benvenuti nella nuova era del riarmo (di F. Bascone)

    Credit: AGF

    Dalla guerra in Ucraina della Russia di Putin alle iniziative imperiali degli Usa di Trump in Groenlandia, Canada e a Gaza, l’azione delle grandi potenze è ormai guidata dalla geopolitica. Così persino il principio di integrità territoriale è stato archiviato. Di fronte al ritorno delle sfere di influenza però, l’Europa rischia di spaccarsi. La difesa comune non è un’utopia ma va organizzata con chi ci sta

    Di Francesco Bascone
    Pubblicato il 11 Apr. 2025 alle 10:19

    Le spregiudicate iniziative imperiali di Donald Trump – Groenlandia, Canada, Gaza, Ucraina – come già le guerre di Putin, tradizionali e ibride, nel suo “estero vicino” e l’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, rendono ancora più evidente che è ormai la geopolitica a guidare l’azione delle grandi potenze, piuttosto che l’ideologia, la sicurezza, la lotta al terrorismo, il ristabilimento della legalità internazionale, la conquista di mercati.

    L’ambizione geopolitica ha senza dubbio una componente economica, ma l’espansione della propria sfera di influenza – per non dire egemonia – è dettata in primo luogo dalla volontà di potenza, dall’appetito di un bene immateriale quale è lo status, la “grandeur”. Il motto MAGA (Make America Great Again) ispira, mutatis mutandis, la politica di Xi e di Putin quanto quella di Trump.

    Sindrome da accerchiamento
    Per Putin l’arroganza dell’America che si proclamava vincitrice della Guerra fredda e leader di un mondo unipolare o di una “Alleanza delle Democrazie” ha sempre costituito una mancanza di rispetto inaccettabile. Da pochi anni al potere, raccoglieva la sfida e reclamava per la Russia uno status paritario, senza ancora avanzare rivendicazioni territoriali.

    L’aspirazione della Russia a mantenere una sia pur ridotta sfera di influenza nel suo vicinato fu contrastata sin dagli anni Novanta dall’America, assecondata dagli alleati europei: inclusione della Germania unificata nella Nato senza limitazioni, allargamento a est dell’Alleanza (e dell’Ue), bombardamenti sulla Serbia amica di Mosca e successiva violazione della sua integrità territoriale, appoggio alle “rivoluzioni colorate” in Georgia (2003) e Ucraina (2004), polemiche per il mancato smantellamento di due basi militari in Transnistria (in Moldavia, ndr) e Abkhasia (in Georgia, ndr).

    La prospettiva di un compromesso storico sulla sicurezza europea post-Guerra fredda, delineata dal vertice Osce di Parigi nel novembre 1990 e ribadita da quello di Istanbul nel 1999, viene definitivamente archiviata nel 2007, quando alla Conferenza di Monaco gli occidentali fanno orecchie da mercante al “cahier des doléances” letto da Putin e Mosca si ritira dal Trattato sulle Armi Convenzionali in Europa (Cfe); e nel marzo 2008, quando gli Usa provano a far entrare Ucraina e Georgia nell’anticamera della Nato (il Map); Francia e Germania bloccano il tentativo, ma Mosca non viene rassicurata perché l’obiettivo è ribadito nel comunicato finale, sia pure sine die. 

    Non si può ignorare che l’Occidente ha alimentato la sindrome da accerchiamento che si è sviluppata a Mosca. Non come percezione di una reale minaccia strategica, ma come negazione di un ruolo di potenza regionale. La dirigenza russa reagisce cercando di riequilibrare gli assetti geopolitici: un asse con la Cina attraverso la Shanghai Cooperation Organization (Sco, 2001), la Collective Security Treaty Organization (Csto, 2002) come contraltare alla Nato (più nel nome che nella sostanza), l’Unione economica eurasiatica (Eeu, 2010-14) come contrappeso, anche in questo caso più ottico che reale, all’Ue. Di questa Unione, l’Ucraina avrebbe dovuto essere una componente essenziale; senza di essa sarebbe stata come una Cee degli anni Sessanta senza la Francia.

    Gli obiettivi del Cremlino
    Perciò, quando nel 2013 il governo ucraino sta per firmare un accordo di super-associazione con l’Ue, preludio alla piena adesione, Putin vede dissolversi il suo progetto. Intima al presidente ucraino di non firmare e Yanukovich ottempera. È questa, ricordiamolo, la genesi della “Rivoluzione di Piazza Indipendenza” che nel febbraio 2014 ha dato inizio al conflitto fra i due Paesi. La svolta nazionalista nel Parlamento di Kiev, con l’affacciarsi di forze nostalgiche come Pravyi sektor (la Destra), suscitano reali timori nelle regioni russofone, soprattutto Crimea e Donbass. Mosca ne approfitta per staccare la Penisola e poi le province di Donetsk e Lugansk, dall’Ucraina. Fino a quel momento non aveva manifestato intenzioni di espansione territoriale, ma solo di preservazione della propria sfera di influenza nel “russkij mir” (il mondo russo, ndr). 

    Anche nel febbraio 2022 la finalità primaria è riportare l’intera Ucraina nell’orbita di Mosca, non mutilarla. Il corpo di spedizione ha il compito di arrivare in pochi giorni a Kiev, instaurare un governo obbediente, imporre un drastico disarmo. Fallito questo tentativo, il Cremlino ripiega sulla conquista di territori. Obiettivo minimo le quattro regioni (oltre al Donbass anche quelle di Zaporizhya e Kherson), che infatti vengono formalmente annesse ancor prima di essere interamente occupate. Obiettivo medio: aggiungervi Kharkiv e Sumy presso la frontiera settentrionale, e a sud tutta la costa del Mar Nero, con Odessa. Senza escludere, come obiettivo massimalistico, tutte le restanti terre a est del Dnepr.

    Quanto trapela dei colloqui fra diplomatici russi e l’immobiliarista americano Steve Witkoff lascia intravedere un progetto di spartizione del territorio e/o delle risorse dell’Ucraina che ci ricorda la cinica ripartizione della Polonia di fine Settecento (in tre fasi) e quella del 1939 fra Hitler e Stalin. È significativa l’affermazione di Witkoff sull’inesistenza di una nazione ucraina, che sembra riecheggiare – come altre pronunciate goffamente dall’altro immobiliarista, domiciliato alla Casa Bianca – uno slogan propagandistico degli interlocutori moscoviti.

    Attualmente appare abbastanza chiara l’intenzione di Putin di appropriarsi non di tutta l’Ucraina ma di buona parte di quella che considera appartenente storicamente al “mondo russo”, lasciando all’Ue quella dal passato asburgico e polacco. Il grande interrogativo, su cui si divide l’opinione pubblica italiana, è se a quel punto saranno soddisfatte le ambizioni territoriali della Russia e quindi sarà inutile e addirittura controproducente la costruzione di una credibile deterrenza convenzionale europea, o se invece Mosca intende sfruttare lo slancio della vittoria e la debolezza degli europei per altre avventure militari.

    La faglia mediterranea
    Di fronte a questo prevalere della geopolitica, in cui l’accesso al mare e le nostalgie imperiali contano più che l’affinità etnica, è naturale che si sentano minacciati non solo ucraini e bielorussi (russkij mir), ma anche finlandesi, baltici, moldavi e georgiani. Devono esserlo almeno dal 2022, quando la Russia è passata dall’appoggiare piccole entità secessioniste (Donetsk e Lugansk, come già Transnistria, Abkhazia e Sud-Ossezia) alla vera e propria annessione delle quattro regioni ucraine.

    Caduto così il consensus sul principio di integrità territoriale (cui si era derogato solo per la Crimea, dichiarata caso sui generis, strumentalizzando il precedente del Kosovo), quel tabù è stato ulteriormente picconato dalla minaccia di Trump di prendersi la Groenlandia. Con la seguente motivazione: «Ci serve».

    È pure comprensibile che i Paesi dell’Europa meridionale non si sentano minacciati, e temano di essere trascinati dagli impegni Nato in guerre che si possono evitare purché i vicini dell’orso russo si mostrino concilianti e, all’occorrenza, sottomessi. Nella loro riluttanza ad accettare la logica del riarmo convergono la paura di esasperare l’ostilità russa e il rifiuto di imporre sacrifici alla popolazione e aumentare l’indebitamento.

    Così si rischia di scavare un fossato fra il “Club Med”, guidato dall’Italia, e gli Stati del nord Europa – Scandinavia, Polonia, Regno Unito, Germania, Francia – che si sentono solidali verso i Baltici e la Finlandia (con qualche dubbio sulla futura collocazione di Parigi nell’ipotesi di una vittoria elettorale dell’estrema destra).

    La spaccatura fra nord e sud dell’Europa farà il gioco di Putin, che ha interesse a un’Ue divisa e debole. E verrà da lui fomentata, offrendo relazioni commerciali, metano a buon mercato, e un allentamento selettivo della guerra ibrida, destinata invece a venire intensificata verso i Paesi europei più ostili.

    L’Unione europea continuerà a funzionare e a difendere la sua “way of life”, indubbiamente preferibile a quelle delle grandi potenze. Ma perderà in coesione e non potrà fare il balzo in avanti verso la dimensione di difesa. La difesa autonoma europea nell’ambito di una Nato sopravvissuta al (parziale?) disimpegno americano non è un’utopia, ma dovrà organizzarsi come “coalition of the willing” intorno al trio anglo-franco-tedesco.

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