Nelle pieghe delle nostre città si nasconde il volto decadente della nostra epoca segnata da disuguaglianze e contraddizioni. Le città, specchio delle società che le abitano, si sono trasformate nel tempo da luoghi di incontro e coesione a spazi segnati da disuguaglianze crescenti, segregazione invisibile e conflitti latenti.
In molti casi, le metropoli contemporanee non rappresentano più la polis di un senso di cittadinanza condivisa, ma realtà frammentate dove coesistono – spesso senza toccarsi – mondi paralleli, separati da barriere economiche, culturali e persino fisiche. Eppure, la città rimane il luogo per eccellenza in cui può (e deve) prendere forma un nuovo patto comunitario. La domanda cruciale è: come possono le metropoli del XXI secolo tornare ad essere motore di armonia e non teatro di divisione?
Uno degli aspetti più evidenti della metamorfosi urbana è la polarizzazione sociale che modella lo spazio fisico. Le grandi città sono ormai segnate da dinamiche di esclusione (anziché di inclusione): gentrificazione, crisi abitativa, accesso diseguale ai servizi. In molte capitali europee e americane, la distanza tra centro e periferia non è solo geografica, ma simbolica. Nei quartieri di pregio si concentrano ricchezza, cultura, innovazione. Altrove – spesso a pochi chilometri – si accumulano disagio, marginalità, senso di abbandono.
Non si tratta di un fenomeno nuovo. Ma ciò che oggi rende più acuta la frattura è la sua velocità e profondità. La digitalizzazione dell’economia ha accelerato processi di selezione sociale, mentre il mercato immobiliare – sempre più guidato da logiche speculative (vedi il recente caso di Milano) – ha allontanato le classi medie e lavoratrici dai centri cittadini, costringendole in zone meno servite, più esposte al degrado. Le città che dovevano essere inclusione e opportunità sono diventate terreno fertile per nuove esclusioni.
Questa polarizzazione ha avuto un impatto diretto sulla natura stessa della convivenza urbana. Il senso di prossimità, e quindi di comunità, si è svuotato di senso. L’essere umano di città oggi vive sempre più solo. I centri commerciali sostituiscono le piazze, la solitudine dei monolocali a peso d’oro prende il posto della convivialità dei cortili condivisi, le app offrono servizi ma dissolvono i legami di vicinato. Il risultato è la perdita di fiducia reciproca, l’erosione di quello “spirito civico” che da sempre costituisce la linfa vitale della democrazia urbana.
Eppure, proprio nella crisi della prossimità si cela una possibilità di riscatto. La pandemia di Covid-19 ha messo in luce quanto i nostri stili di vita fossero insostenibili – non solo sul piano ecologico – ma anche umano. Ha riportato al centro il valore del quartiere, della solidarietà tra vicini, della città dei 15 minuti. Da quel trauma collettivo può ancora nascere una nuova idea di metropoli: più lenta, più relazionale, più giusta.
Il futuro delle nostre città dipenderà in larga parte dalle scelte politiche che sapremo adottare oggi. Le metropoli non sono neutre: ogni strada, ogni edificio, ogni panchina racconta una visione del mondo. Ripensare lo spazio urbano significa, allora, rimettere in discussione i presupposti di base della pianificazione, interrogandosi su chi ha diritto alla città e su quale città vogliamo costruire. Finanche limitando fortemente l’over tourism, benché questo costituisca una delle principali fonti di sopravvivenza del nostro Paese.
In questo senso, alcune esperienze di modelli urbani rappresentano esempi virtuosi. A Barcellona, la sindaca Ada Colau ha promosso i micro-quartieri pedonali in cui lo spazio pubblico è restituito ai cittadini, ai bambini, alla socialità. Senza temere di sfidare le lobby dell’automotive, un’industria decadente ma ancora fortissima per la nostra economia. A Parigi, Anne Hidalgo ha avviato la transizione verso una “ville du quart d’heure”, dove ogni abitante può trovare tutto ciò che serve – lavoro, scuola, cure, cultura – a meno di 15 minuti da casa. Tra l’altro, riducendo l’asfalto del centro parigino e rimpiazzandolo con aree verdi che rendono la città meno calda e quindi più vivibile. In Colombia, a Medellín, si è scommesso sulla mobilità integrata (come le teleferiche che collegano le periferie al centro) per ridurre la marginalità e favorire l’inclusione. Anche l’Italia, come dimostra il modello Bologna guidata da Matteo Lepore, offre uno spunto di riflessione: Città 30 (Km/h) ha imposto agli automobilisti un cambio di passo rivoluzionario che per la prima volta favorisce i pedoni e, di conseguenza, una città sostenibile a passo d’uomo.
Ciò che accomuna questi esperimenti è un principio fondamentale: la città come bene comune. Non più come prodotto da consumare o oggetto di speculazione, ma come ambiente condiviso da curare e abitare insieme. È un cambio di paradigma che chiede il coraggio di agire su molteplici fronti: trasporti pubblici, edilizia popolare, decarbonizzazione, spazi verdi, partecipazione civica. Ed è anche l’unico modo per restituire senso alla parola “cittadinanza”.
Troppo spesso l’urbanistica contemporanea si è lasciata sedurre dall’estetica dell’esclusività: torri di vetro, skyline spettacolari, quartieri residenziali firmati da archistar. Una metropoli non si misura solo per la sua bellezza, bensì per la sua capacità di accogliere. Le città intelligenti sono quelle che mettono al centro l’uomo promuovendo una maggiore qualità della vita e un ambiente urbano più vivibile. Che riscoprano il potere delle panchine, delle biblioteche di quartiere, dei mercati rionali. Sono queste le vere “smart cities”, non quelle dominate dalla tecnologia, ma quelle che sanno generare relazioni.
La vera sfida è passare dalla città vetrina – che espone i suoi angoli più belli per attrarre turismo, investimenti e profitti – alla città solidale, che si misura sulla qualità della vita di tutti, non solo di pochi. In questo, il ruolo delle comunità è fondamentale. Il tessuto associativo, le reti informali, i comitati di quartiere, le esperienze di mutualismo e di autogestione possono diventare alleati preziosi delle amministrazioni pubbliche nel disegnare una nuova urbanità. Ma devono essere ascoltati, riconosciuti, messi nelle condizioni di incidere.
Anche il mondo dell’impresa e dell’innovazione può giocare un ruolo. Le nuove economie urbane – dalla rigenerazione dei vuoti urbani alle cooperative di abitanti, dall’imprenditoria sociale ai servizi di prossimità – mostrano che è possibile coniugare sostenibilità economica e impatto sociale. Ciò che serve è un ecosistema normativo che favorisca queste pratiche, piuttosto che ostacolarle.