Per la prima volta nella storia recente, il lavoro — pilastro del progresso e della dignità individuale — non basta più da solo a determinare il destino delle persone. L’idea che l’impegno e il merito possano spalancare le porte della sicurezza economica, dell’autonomia personale e perfino della felicità è entrata in crisi. Oggi, a contare davvero, è ciò che si eredita. E ciò è vero non solo per i grandi patrimoni dei super ricchi, ma anche per i piccoli e medi risparmi di una vita accumulati da genitori e nonni. A qualsiasi livello, strato sociale e latitudine.
L’impiego che svolgiamo determina infatti in modo sempre meno decisivo la nostra capacità di produrre ricchezza e costruire un futuro, ormai quasi del tutto imprescindibile da ciò e da quanto riceveremo come successione per discendenza diretta.
Nel 2025, secondo diverse stime accademiche, sono stati trasferiti oltre 5 trilioni di euro in eredità da una generazione all’altra: case, denaro, oggetti d’arte, eccetera. Si tratta di una fra le più imponenti operazioni di redistribuzione privata di ricchezza della storia occidentale. È il lento e graduale passaggio di testimone dei baby boomers, la generazione nata nel dopoguerra e cresciuta in un’epoca di espansione, salari stabili, case che si compravano con dieci annualità e pensioni garantite.
Oggi, quella ricchezza accumulata viene riversata su figli e nipoti che spesso, pur avendo studiato di più e lavorato con maggiore flessibilità, si ritrovano economicamente più fragili. La fotografia è oggettivamente impietosa: il lavoro non garantisce più mobilità sociale. Gli stipendi stagnano, i contratti si frammentano, la casa — una volta simbolo di riscatto — è diventata un miraggio. Così, mentre le disuguaglianze crescono, l’unico vero ascensore sociale rimasto è quello familiare: l’eredità.
Chi nasce da genitori proprietari di un immobile o di qualche investimento ha un paracadute; chi no, rischia di restare indietro per sempre. È un ritorno a un’economia quasi feudale, dove il punto di partenza conta più del talento e dell’impegno.
Ma questa “società dell’eredità” non è solo un fatto economico: è anche un fattore psicologico e culturale. Genera una sensazione diffusa di impotenza, di sospensione. I giovani adulti — che giovani non sono più — restano in bilico tra aspirazioni frustrate e una dipendenza prolungata dalle famiglie. L’autonomia, che un tempo segnava il passaggio alla maturità, diventa così un privilegio. E la famiglia, da rete di affetti, si trasforma in infrastruttura economica indispensabile. Un dramma vero.
Il paradosso è che questa montagna di ricchezza che cambia mani non produce alcuna nuova energia sociale. Non alimenta nulla: innovazione, rischio, impresa. Serve, perlopiù, solo a colmare i vuoti di un sistema che non garantisce più stabilità né opportunità. Eppure, in questo enorme flusso di capitale privato, si nasconde anche una domanda implicita di riforma: come redistribuire le risorse, come tassare le eredità, come far sì che il futuro non dipenda solo dalla famiglia — quale che ne sia la provenienza.
Il punto è che un’economia fondata sull’eredità è un’economia prevalentemente ferma. Una società che vive dei risparmi del passato è una società che ha smesso quasi del tutto di credere nel futuro.
L’Italia, come gran parte d’Europa, si trova oggi davanti a una scelta cruciale: continuare a contare sui lasciti dei genitori o costruire un nuovo patto generazionale in cui lavoro, studio e innovazione tornino a valere qualcosa. Perché se il futuro si eredita e non si conquista, allora il merito diventa un’illusione, la mobilità sociale un mito, e la speranza (ancora prima del capitale) un bene sempre più scarso.
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