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Com’è cambiata la rotta dei migranti per raggiungere la Libia

Credit: Akintunde Akinleye

L'Europa vuole creare centri di ricollocamento nei paesi di transito, intanto il corridoio percorso dai profughi nel deserto è diventato più pericoloso. L'intervista di TPI al capo missione Iom in Niger

Di Anna Ditta
Pubblicato il 31 Ago. 2017 alle 16:39 Aggiornato il 18 Apr. 2019 alle 10:39

Il vertice di Parigi sui migranti si è concluso con due nuove decisioni sulla gestione dei flussi migratori: la creazione di centri di ricollocamento nei paesi di transito dei migranti in Africa e la revisione del sistema di Dublino.

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Come raggiungere questi due obiettivi sarà probabilmente il tema al centro di nuove trattative nelle prossime settimane (o nei prossimi mesi). Ma la rotta che i migranti percorrono in Niger, uno dei tradizionali paesi di transito, è già cambiata, e l’intensità del flusso è diminuita notevolmente.

Questo non è avvenuto di certo dopo l’incontro di Parigi dello scorso 28 agosto tra i leader di Italia, Francia, Spagna, Francia, Unione europea, che è ancora troppo recente, né dopo l’accordo ottenuto da Macron sulla Libia. E neanche dall’inizio della missione navale italiana in Libia.

La vera diminuzione, come spiega a TPI Giuseppe Lo Prete, capo missione dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni in Niger, è avvenuta a settembre del 2016.

Com’è cambiata, se è cambiata, la rotta dei migranti in Africa centrosettentrionale dopo l’accordo in Libia e l’avvio della missione italiana nelle acque libiche?

Sono accordi ancora recenti, vedremo i risultati. È comunque positivo riuscire ad avere dei dialoghi con l’autorità in Libia, qualunque essa sia. Confermo comunque che il corridoio di transito dei migranti si è stretto e i flussi sono diminuiti.

Noi osserviamo i flussi da febbraio dell’anno scorso, prima non avevamo un sistema di monitoraggio preciso. Non possiamo dire che il numero sia esaustivo, perché stiamo parlando di un’area grande come la Francia nel deserto del Sahara. Ma non c’è nessun dubbio che i flussi siano diminuiti. Lo riportano varie fonti, confermate dall’osservazione che noi facciamo. Il grosso cambiamento comunque è avvenuto a settembre 2016.

Cos’è successo?

Il ministro dell’Interno del Niger ha fatto la sua prima visita istituzionale ad Agadez. Lì le autorità si sono rese conto che ci sono due rotte molto importanti per la Libia e per l’Algeria e anche che i nigerini e le nigerine che vanno in Algeria finiscono nella prostituzione.

Questo ha convinto il governo a prendere delle misure. Da quel momento hanno iniziato a sequestrare i veicoli, hanno messo delle pattuglie dell’esercito lungo tutto il tragitto, a fermare chi sta andando verso la Libia o l’Algeria senza documenti, su veicoli senza targa, e a riportarli ad Agadez.

Queste informazioni servono a fare un po’ di contesto, altrimenti sembra che le cose siano cambiate da quando è intervenuto Macron con l’accordo in Libia.

Quante persone transitano in Niger verso la Libia e l’Algeria?

Dai 72mila al mese di quando abbiamo iniziato il monitoraggio, nell’ultimo rapporto siamo arrivati a 7mila al mese, sia verso la Libia sia verso l’Algeria. Il tragitto verso la Libia è quello più utilizzato, ma quello verso l’Algeria sta diventando sempre più importante.

Da lì i migranti passano in Libia da un’altra parte o vanno in Marocco e Spagna. Anche le autorità spagnole si sono accorte che ci sono più arrivi sulle loro coste, anche se ancora non al livello di Lampedusa.

È vero che le rotte sono diventate più pericolose?

Sì, confermo. Le altre rotte che ci sono adesso, quelle alternative, più o meno seguono la rotta tradizionale, perché i punti d’acqua sono sempre lì. Ma ci sono zone che sono inaccessibili anche per locali, per una serie di questione di sicurezza come il banditismo o gruppi estremisti.

In ogni caso adesso sicuramente c’è più gente che viene salvata attraverso le operazioni search and rescue. Non solo dell’Iom ma anche della croce rossa, delle autorità locali e delle pattuglie dell’esercito.

Al recente vertice di Parigi ha partecipato anche il presidente del Niger.

Nell’ultimo anno il Niger è stato preso ad esempio dall’Unione europea per la volontà politica di fare qualcosa. Ovviamente non si può chiedere al Niger, che è il secondo paese più povero al mondo nelle classifiche, di fare quello che non può fare neanche l’Italia o la Libia, cioè rafforzare il controllo sul territorio con le risorse che non hanno.

Da La Valletta in poi, con tutti gli incontri a cui il presidente o i ministri del Niger hanno preso parte, sicuramente è stata rafforzata la cooperazione bilaterale o multilaterale. Questo serve non solo a limitare i flussi, ma anche per aiutare le comunità locali, dare loro alternative.

In che modo?

Queste comunità vivono di immigrazioni irregolari. I giovani del posto, che non hanno lavoro né scuole, l’unica cosa che possono fare è ospitare i migranti che passano, facendosi pagare ovviamente, e offrire loro da mangiare. Gli organizzano il trasporto eccetera. Non si considerano criminali per questo. Le loro famiglie sono le ex guide turistiche del deserto che hanno perso tutto, date le condizioni di insicurezza del paese, e adesso sopravvivono così.

Se gli togliamo questo bisogna iniziare a pensare a modi alternativi di dargli lavoro. La linea della repressione sul lungo periodo non è sostenibile.

Negli ultimi mesi si è parlato anche della creazione di hotspot in Niger, da realizzare con la collaborazione della vostra organizzazione e quella dell’Unhcr, dove si dovrebbe distinguere tra richiedenti asilo o rifugiati, che hanno diritto all’accoglienza, e migranti economici, che dovrebbero tornare indietro.

Questo presenta una difficoltà. Ricordo che il Niger rappresenta il confine dell’area Ecowas, che è come l’area Schengen in Europa, con alcune differenze. Un senegalese che parte da Dakar può arrivare in Niger in tre giorni senza passaporto né alcun documento (dovrebbe avere un carnet timbrato, ma è una cosa che nessuno applica). C’è la libera circolazione. Per questo quando si dice hotspot – per fortuna Angela Merkel ha chiesto di non usare questa parola – la cosa lascia perplessi.

Il Niger non può prendere un senegalese o maliano e fare lo screening dei documenti, sono persone che possono circolare liberamente sul territorio. Solo da quando superano il confine con la Libia o l’Algeria si trovano in una condizione di irregolarità.

Chi sono i migranti che arrivano nei vostri centri?

I paesi d’origine sono quelli dell’Africa occidentale, Senegal, Guinea Conakry, Nigeria, Gambia, Mali e tutta la fascia della costa, Costa d’Avorio e Ghana.

Nel 2015 l’Iom ha facilitato il ritorno di 1.500 persone. Nel 2016 di 5mila. Quest’anno saranno ancora di più. Parliamo di ritorni volontari per migranti economici, non rifugiati, questa è una distinzione importante. Per i rifugiati o per i richiedenti asilo abbiamo un protocollo insieme all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).

Quanti sono i rifugiati?

Su 10mila ritorni volontari fatti nel 2016-2017 abbiamo riferito solo 30 persone all’Unhcr, perché venivano dal Kenya, dalla Repubblica Centrafricana, dove non potevano tornare, o dal Gambia e dicevano di essere perseguitati dal vecchio presidente (adesso i gambiani tornano indietro tranquillamente).

Quindi è una rotta prettamente di migranti economici. Siamo in contatto con l’Unhcr, chi ha bisogno di protezione internazionale la riceve. Ma sono pochi. Infatti anche la cancelliera tedesca Merkel ha detto: prima di tutto non chiamiamoli più hotspot perché nessuno sa cosa sono e poi facciamo distinzione tra rifugiati e migranti economici. Sono situazioni diverse.

L’idea che sta dietro tutto questo è anticipare il più possibile l’intervento, visto che in Libia è più difficile, allora si pensa di farlo in un paese di transito come Niger o addirittura nei paesi d’origine per vedere cosa sta succedendo.

Una volta che queste persone arrivano a Lampedusa, se sono rifugiati o migranti economici poco importa, perché tutti chiedono asilo e da lì passano due anni e poi quasi tutti finiscono in un limbo. L’asilo ad esempio non viene concesso se vengono dal Senegal e così rimangono nella clandestinità, e questo è il vero problema che bisogna evitare.

Cosa si può iniziare a fare?

Ad esempio in Libia l’Iom sta spingendo molto, almeno nei centri dove si può accedere con la Croce Rossa, con l’Iom o l’Unhcr, per migliorare le condizioni, far raggiungere gli standard minimi internazionali, trasformarli in centri aperti e non in prigioni – che di fatto è quello che sono adesso.

Si può rafforzare la cooperazione alle frontiere libiche, con la guardia costiera e nel sud, tra Libia, Niger e Ciad. Ma bisogna anche trovare autorità locali con cui discutere di iniziative di sviluppo locale.

E poi occorre far diventare i ritorni volontari stabili. Se qualcuno torna indietro deve trovare condizioni migliori o essere aiutato a ricrearsi le sue opportunità. Abbiamo già iniziato da un paio d’anni con i primi progetti, in Senegal, Nigeria. Abbiamo ricomprato le barche ai pescatori in Gambia, abbiamo ricomprato con delle ong locali la terra per continuare l’attività agricola. Lasciamo spazio alle loro idee e ai loro sogni, perché alla fine per questo partono.

Sono micro-iniziative che però hanno molto successo. Al punto che alcuni migranti hanno iniziato a chiamare quelli che sono ancora in Libia e fare il passaparola per convincerli a tornare indietro. Come il passaparola funziona sul lato negativo per i trafficanti, noi cerchiamo di usarne uno positivo per dire loro: alcuni sono tornati e ce l’hanno fatta, hanno ripagato il debito.

È un lavoro lungo, però sono già due o tre anni che abbiamo iniziato. Ci saranno sempre dei migranti, le rotte sono storiche in Africa. Ma non a questi livelli. E sopratutto, tanti possono migrare e rimanere in zone dell’Africa dell’ovest o del Nordafrica, dove possono circolare liberamente. Almeno sono vicini a casa, anziché arrivare in Italia e trovarsi in condizioni a volte peggiori di quando sono partiti.

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