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Il racconto dell’attivista Brhane: “Essere riportati in Libia vuol dire essere torturati”

Credit: Getty Images

Anche lui nel 2002 aveva provato ad arrivare in Europa, ma il barcone su cui ti trovava era stato riportato in Libia

Di Futura D'Aprile
Pubblicato il 22 Gen. 2019 alle 17:18 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 01:27

Dopo la notizia della chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto, a Roma, la consegna del barcone con a bordo 100 migranti alla Guardia costiera libica e la morte di 160 persone nel Mediterraneo ritorna a far discutere la sorte di coloro che cercano di raggiungere una vita migliore in Europa.

Tareke Brhane, ragazzo eritreo che lavora come mediatore culturale nel centro di Castelnuovo di Porto sa bene cosa vuole dire essere rimandato in Libia, come racconta in un’intervista al Fatto Quotidiano.

Nel 2014 ha ricevuto la medaglia per l’attivismo sociale conferita dal XIV Summit dei Premi Nobel per la Pace, mentre nel 2016 si è battuto perché il Parlamento approvasse la “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza” in memoria del naufragio in cui persero la vita 388 persone. Anche lui nel 2002 aveva provato ad arrivare in Europa, ma il barcone su cui ti trovava era stato riportato in Libia.

Come racconta al Fatto, l’imbarcazione era stata soccorsa dalla marina di Malta ed era stata riconsegnata ai militari libici, che riportarono tutti al punto di partenza. Quando i migranti si resero conto che stavano tornando in Libia, dove avevano già subito diverse torture e abusi prima di riuscire a partire, ebbe inizio la disperazione.

“Lasciatemi morire qui, non voglio tornare”, erano le urla di alcune delle persone presenti sull’imbarcazione e diretta ai maltesi. Le suppliche però furono inutili.

“Ad accoglierci c’erano schiere di poliziotti. In mano avevano bastoni e tubi neri. Man mano che ci facevano scendere dalla barca, ci colpivano con pugni e calci. ‘Volevate andare in Italia, eh?’, gridavano. E giù botte”, racconta Brhane, che ha vissuto tutto questo sulla sua pelle.

“Noi eravamo stanchi, avevamo fame. Ma loro picchiavano, picchiavano chiunque gli capitasse a tiro. Picchiarono anche me, ma io non sentivo nulla”.

Chi aveva cercato di scappare dalla Libia a quel punto fu portato nel centro di detenzione di Al Fallah, a sud ovest di Tripoli.

“C’erano migliaia di persone. Le celle erano sovraffollate, c’era gente di tutti i tipi e di diverse nazionalità: bangla, eritrei, somali… Eravamo in troppi, così decisero i trasferirci in un altro carcere, a Misurata”.

Anche lì le condizioni non erano migliori, racconta ancora Tareke Brhane. “Non c’erano letti, né materassi per dormire. C’era un solo bagno, ma non funzionava. Eravamo circa 30 persone. Da mangiare ci davano un pugno di riso mezzo crudo al giorno o della pasta cruda”.

 

“Picchiati con tubi, chiusi in stanze strette, senza bagni e cibo. Ecco cosa vuol dire tornare in Libia”

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