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    Vi racconto cosa significa essere costretti a scappare dal proprio paese e vivere da rifugiati

    In Iraq Remon studiava ingegneria elettronica, sperava di trovare un lavoro subito dopo l’università, farsi una famiglia ed essere felice. Poi a Qaraqosh è arrivato l'Isis e tutto è cambiato

    Di Lorenza Zago
    Pubblicato il 25 Set. 2017 alle 19:20 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:54

    Remon Abosh ha 22 anni. Ha gli occhi scuri e un sorriso di quelli che non si possono fare a meno di ricambiare. È un ragazzo come tanti della sua età, con il taglio di capelli giusto, la battuta pronta e un inglese sciolto. È iracheno, di Qaraqosh, a circa venti minuti da Mosul. Della sua città oggi è rimasto poco. Da un anno e mezzo è uno degli oltre 61 mila rifugiati iracheni in Giordania. Vive a Madaba, a 45 chilometri dalla capitale di Amman, con i genitori e il fratello.

    Qui resterà ancora per poco perché una decina di giorni fa ha ricevuto il visto per entrare in Australia. Un pezzetto di carta plastificato che apre le porte del paese ai rifugiati. Paese, però, che nei confronti dei migranti ha adottato politiche tra le più severe. Ventisei ore di volo quelle che attendono Remon e la sua famiglia, sei le valigie che porteranno con sé cariche di vestiti, oggetti, ricordi e bisogno di ricominciare.

    In Australia, dove il 30 per cento della popolazione è di origine straniera, Remon ha uno zio che lo aspetta. “Vive a Sidney da dieci anni, nei primi tempi ci darà un sostegno. Poi io, mio fratello e i miei genitori dovremmo darci da fare”, spiega Remon.

    La Giordania li ha accolti, forse li ha anche salvati da una fine che è toccata a troppi. A Qaraqosh Remon studiava ingegneria elettronica, sperava di trovare un lavoro subito dopo l’università, farsi una famiglia ed essere felice. Niente di più. Sogni come quelli che hanno tutti finché qualcun altro ha deciso che non valevano abbastanza, che potevano essere distrutti. Distrutti come le case, le scuole, le chiese. Sogni sommersi dalle macerie.

    Dell’Iraq Remon non parla volentieri, a qualsiasi domanda sul passato i suoi occhi cercano di evitare quelli di chi ha di fronte. Ha quell’espressione di chi sa benissimo che basta un’ora per sconvolgere una vita. Accenna solo a una data in particolare, quella del 6 agosto 2014. Quella che nessuno riesce a dimenticare. Centoventi mila cristiani iracheni quel giorno sono fuggiti dalla Piana di Ninive dietro l’incalzare dei miliziani dello Stato Islamico.

    “In quel momento abbiamo realizzato che Qaraqosh non era più sicura e che dovevamo andarcene. Per alcuni mesi abbiamo vissuto ad Ankawa, in una casa assieme ad altre 45 persone. Era una casa grande, ma non abbastanza per tutti”. Per Remon sono gli ultimi giorni in Medio Oriente. Forse non ci tornerà mai più, o forse sì. Ultimi giorni che ha deciso di passare nella parrocchia di Hanina a Madaba, dove 100 giovani da tutto il mondo sono impegnati in un’esperienza di volontariato tra i rifugiati siriani e iracheni.

    Ma lui, qui, è uno dei volontari. “L’anno scorso ho conosciuto dei ragazzi italiani, di un’associazione vicentina che si chiama Non Dalla Guerra e che opera in Giordania. Dopo aver fatto visita alla mia famiglia, mi hanno chiesto di partecipare ai loro progetti. È stato una casualità, ma in quell’istante non mi sono più sentito un rifugiato. Semplicemente Remon. Non capitava da troppo tempo”.

    Un incontro di quelli inaspettati, di quelli che muovono qualcosa dentro. “Insieme a loro ho conosciuto altre famiglie di rifugiati, che hanno perso i propri cari. Figli, fratelli, mamme, papà che non ci sono più a causa della guerra. Nonostante tutto, a me è andata bene”.

    Si sente fortunato Remon. Lui che dal suo paese è dovuto scappare, lui che l’odio e la violenza ha dovuto respirarli fino a venirne quasi soffocato, lui che è stato privato della possibilità di scegliere. Talmente fortunato da passare gli ultimi giorni prima della partenza tra giovani che quasi sicuramente non vedrà mai più, aiutando chi ha bisogno.

    “La mia prospettiva ora è cambiata, fino a un anno fa ero convinto di non voler ritornare mai più in Iraq. Adesso voglio costruirmi un futuro solido in Australia, così da avere gli strumenti giusti per fare qualcosa di concreto per il mio paese. Credo sia la cosa più giusta, c’è bisogno di questo”. Paura, gioia, timore, speranza, anche tanta rabbia. Le emozioni che prova gli si leggono in faccia, ma sono troppe e troppo forti per spiegarle tutte. Ora è solo tempo di salire su un aereo e ricominciare.

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