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    E se la vittoria di Macron contro Le Pen al ballottaggio non fosse così scontata come sembra?

    I numeri usciti finora dalle urne non si limitano ad indicare i vincitori del primo turno; al contrario, ci raccontano di un paese profondamente diviso. Cosa succederà?

    Di Giorgio Ferrari
    Pubblicato il 25 Apr. 2017 alle 10:57 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:19

    Se vincere al ballottaggio del 7 maggio superando Marine Le Pen potrebbe rivelarsi relativamente facile per Emmanuel Macron, sempre che l’umore sotterraneo del paese non ribalti quel verdetto che sembra già scritto, molto più complicato sarà governare la Francia dopo le elezioni legislative di giugno.

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    I numeri usciti finora dalle urne non si limitano ad indicare i vincitori del primo turno; al contrario, ci raccontano di un paese profondamente diviso, anzi, verticalmente spaccato in due: da una parte la Francia delle grandi città, europeista, liberista, profondamente democratica, dall’altra la Francia della provincia e della paura (modello Brexit, a ben guardare, ma anche modello-Trump), dei posti di lavoro perduti, del ceto medio impoverito e rancoroso, della minaccia del terrorismo islamico incarnata nella presunta debolezza delle élites.

    Guardiamo le cifre, per meglio capire la fisionomia di questo grande arcipelago dell’opposizione: il Front National di Marine Le Pen ha guadagnato al primo turno il 21,3 per cento dei consensi, al quale dobbiamo aggiungere quel 4,7 per cento dell’ex gollista Nicolas Dupont-Aignan, leader del movimento sovranista Debout la France; ma non dimentichiamo la sinistra radicale, antieuropeista e molto vicina per certe posizioni a quella di Bleu-Marine: il suo leader Jean-Luc Mélenchon (non pochi lo definiscono: “l’altra faccia del lepenismo”) ha portato a casa il 19,6 per cento, cui si deve aggiungere l’1,1 per cento dell’NPA (Nouveau Parti Anticapitaliste) di Philippe Poutou e lo 0,6 per cento di Lutte Ouvrière, il minuscolo partito di Nathalie Arhaud.

    Fate i conti: si arriva al 47,3 per cento contro un affannato 50,4 per cento, a tanto ammonta la somma dei voti di Macron (24 per cento), dei Républicains di François Fillon (20 per cento) e degli sfibrati socialisti di Benoît Hamon, precipitati al 6,4 per cento, quasi una copia perfetta del tracollo dei greci del Pasok con l’irrompere sulla scena di Syriza. Ma nemmeno queste cifre raccontano appieno la Francia e le sue divisioni, perché nonostante il forte afflusso alle urne il 20 per cento degli aventi diritto non è andato a votare.

    Ciò che sulla carta insomma sembra già deciso, nella realtà è ancora tutto da stabilire. Umori e derive si mescolano nel corpo elettorale francese: il criptogollismo di Marine, per esempio, assai più convincente nel suo statalismo di quello di Fillon e molto più seducente del neoliberismo venato di lampi spartachisti di Macron, senza contare la presa emotiva che Mélenchon esercita sugli elettori che mai voterebbero in prima istanza il Front National, ma che di fronte a un blocco di centrodestra (Macron-Fillon più alleati dell’ultima ora) potrebbero optare per appoggiare – un classico voto “hold your nose” – la Le Pen.

    Fino addirittura a farla vincere al secondo turno: circostanza molto improbabile (anche suo padre nel 2002 con il solo 16,9 per cento surclassò il socialista Jospin arrivando alla sfida diretta con Chirac, ma venne travolto da una valanga di 25 milioni di voti, ovvero l’82 per cento dei suffragi), ma da tener comunque presente.

    Anche perché una vittoria della Le Pen cambierebbe profondamente la fisionomia della Francia: dal ritorno al proporzionale con premio di maggioranza del 30 per cento alla riduzione a 500 complessivamente fra deputati e senatori, dal tetto all’immigrazione fissato a 10 mila ingressi all’anno contro i 40 mila attuali alla cancellazione del jobs-act alla francese, dall’obbligo di indossare l’uniforme per gli studenti delle scuole primarie all’aumento del 50 per cento del budget per la difesa, all’obbligo di esporre la bandiera francese su tutti gli edifici pubblici e contestualmente eliminare quella europea, fino alla soppressione dello spazio di Schengen, alla reintroduzione delle dogane e alla prospettiva di un referendum sull’euro e sull’Unione Europea.

    Come governerebbe invece Macron? “Sulla punta degli spilli – ci confida un diplomatico di lungo corso -, perché il suo movimento non ha alcuna probabilità di raggiungere picchi significativi alle elezioni legislative”. In altre parole Macron sarebbe costretto a nominare un primo ministro che non appartiene ad En Marche!.

    Chi, dunque? Molto probabilmente Fillon, uomo di sperimentata capacità di governo e al tempo stesso l’ostinato outsider che rifiutando di ritirarsi dalla corsa a seguito dello scandalo Pénélope (la moglie beneficiò di fondi e compensi pubblici per prestazioni mai effettuate) ha tolto a Macron il grande successo che avrebbe potuto conquistare, probabilmente contando proprio sul ripescaggio postumo.

    Ma un républicain all’Hôtel de Matignon comporterà una coabitazione che si preannuncia fin da subito difficoltosa: memorabile quella di Mitterrand con Jacques Chirac, un vero e proprio mariage blanc, che potrebbe riproporsi a giugno. Come si intravede, tutto può ancora accadere nel grande acquario francese.

    I pesci grandi sono già in piena attività: Marine che soffierà sulla paura, Macron sull’ottimismo, la prima che al consolidato asse con la Germania guarderà con sospetto, il secondo che deciderebbe solo dopo le elezioni tedesche (Merkel o Schultz?) come comportarsi.

    In agguato ci sono i pesci di profondità, quel 20 per cento di astensionisti che potrebbero fare la differenza. Nessuno è sicuro di niente.

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