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    Vita da donne in Qatar

    L'abaya è il simbolo femminile qatarino. Chi lo indossa lo fa per una scelta culturale, non per un'imposizione religiosa

    Di Alma Safira
    Pubblicato il 8 Mar. 2014 alle 00:59 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:59

    È inglese ma vive in Qatar, indossa l’abaya, il lungo vestito nero tradizionale della penisola arabica. Porta il velo ed è una scelta. Pragmatica più che identitaria. Yousra Samir è l’autrice di ‘Under your abaya’, il blog di moda dove dà consigli sulle ultime tendenze da abbinare o da portare sotto al proprio abito nero.

    “La mia è stata una decisione culturale, non religiosa” dice Samir. Portare l’abaya in Qatar è il simbolo di uno status sociale invidiabile, ossia quello del cittadino qatarino: una minoranza privilegiata di circa 300 mila persone. I cittadini qatarini sono i più ricchi del mondo, con un Pil pro capite di circa 100 mila dollari.

    “Ho sempre vestito all’occidentale, poi ho cominciato a mettere l’abaya quando frequentavo la Qatar University e molte delle mie amiche lo portavano. Lo trovavo molto elegante. Mi sono accorta che la gente in Qatar ti tratta con più gentilezza e rispetto se sei vestita con l’abito tradizionale del Golfo, pensano che sei una di loro e hanno un’attenzione particolare”, spiega dopo cinque anni che lo veste quotidianamente. Una scelta che permette anche una vita sentimentale: i ragazzi locali ti chiedono di portare l’abaya, spesso anche quello integrale che ricopre tutto il viso, occhi compresi. È una condizione, il margine di contrattazione è sottile.

    L’abaya è arrivato nel Golfo alla fine degli anni Settanta e, come spiega Samir, è un abito senza un connotato religioso. Anche la sceicca Al Mayassa, figlia dell’emiro del Qatar e a capo dell’impero culturale e finanziario della Qatar Museum Authority, ha detto durante il suo discorso per Ted – ‘ideas worth spreading’ – che si tratta di un segno identitario e culturale, non di un’imposizione islamica.

    Nel suo blog Samir scrive che nel Golfo le donne che portano il lungo velo hanno dei vantaggi rispetto alle donne che vestono abiti comuni: sotto al tuo abaya puoi mettere quello che vuoi, non devi portare magliette a maniche lunghe o pantaloni larghi che non ostentino le forme per rispettare la culturale islamica conservatrice del Qatar. Nonostante questa argomentazione abbia convinto Samir, molte donne che visitano il Qatar non portano l’abaya. Per questo alcune qatarine hanno organizzato la campagna ‘One of us’, sostenuta anche dall’Autorità per il turismo del Qatar, con cui richiedono di vietare l’esposizione di ginocchia e spalle in pubblico. Se sei nel nostro Paese, sei una di noi. E ti vesti come diciamo noi. Questa è la logica con cui cercano di preservare la loro tradizione, percependo l’invasione culturale occidentale come una minaccia, non come una risorsa.

    Samir racconta che quando arrivò in Qatar 9 anni fa, nell’emirato non vi erano fashion designers di abaya, mentre ora vi sono un numero infinito di brand e stiliste. L’inclusione sociale a cui dà accesso l’abaya in Qatar non è realizzabile da alcuna politica sull’integrazione degli immigrati, concetto estraneo al governo, che non riconosce la cittadinanza neanche ai figli di qatarine, se sposate con stranieri. Il lato occidentale di Samir riaffiora quando torna in Inghilterra. Si toglie l’abaya in aereo e non lo rimette fino al volo di ritorno. “Quando vado in Inghilterra ritorno ai miei jeans perché sento che c’è ancora una forte discriminazione verso le donne con l’abaya”. Prendendo un aereo della Qatar Airways si può assistere a una vera e propria sfilata di donne velate al check-in, che scendendo dall’aereo scompaiono per riapparire mischiate alla folla in abiti occidentali. Irriconoscibili.

    “Cambiare i miei vestiti non significa che ho una doppia identità: lo faccio per evitare forme di razzismo”, dice Samir. Lei è cresciuta in Inghilterra e si ricorda quando da bambina vedeva la madre sottoposta quotidianamente a episodi sgradevoli legati a barbarie e ignoranza. La insultavano, le sputavano addosso. “Dopo aver visto quello che ha dovuto patire mia madre, io preferisco ‘occidentalizzare’ il mio abbigliamento quando vado in Inghilterra, perché molte persone in Occidente associano ancora l’abaya a un’idea patriarcale di controllo sulla donna, dando per assodato che sia stato tuo padre o tuo marito a importelo per ragioni religiose”.

    Di fronte all’esposizione ‘Esclavas’ (schiave) della fashion designer spagnola Yolanda Dominguez, che ha realizzato bikini hard con la stoffa dei burka afghani, Samir sorride. “Le donne vengono trattate come oggetti in molte società del mondo in diversi modi, e questa mostra è una buona rappresentazione di ciò”, avverte, prendendo le distanze sia dalla scelta del bikini sia da quella del burqa. Un difficile compromesso tra consapevole scelta e pragmatica sopravvivenza sociale.

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