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    “Mi staccava la pelle a morsi”, la violenza di genere raccontata dalle donne cilene

    In Cile nel 2016 si sono registrate 150mila denunce per violenza domestica. Dopo brutali aggressioni, i movimenti per i diritti delle donne hanno acquisito nuova forza

    Di Mariana Diaz Vasquez
    Pubblicato il 10 Apr. 2017 alle 12:30 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 11:03

    “Ciò che mi ferisce di più è il pregiudizio di altre donne”, racconta Veronica a TPI, una donna di 36 anni, single e madre di due bambini. Mentre parla tiene stretta a sé la sua borsetta, mi guarda dritto negli occhi, fino a quando i suoi non si riempiono di lacrime. Così tira fuori un pacchetto di fazzoletti, che poi fa il giro delle donne sedute a cerchio che la ascoltano.

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    La violenza di genere in Cile

    “Da piccola ho subito abusi sessuali e poco tempo fa un tentativo di stupro”, dice la donna. “L’altro ieri ero angosciata. Avevo fatto un brutto sogno, ho chiesto a mia madre di abbracciarmi e in tutta risposta lei mi ha detto che sono esagerata: ‘Un altro uomo che ti tocca non è poi così grave’. Persino le mie amiche mi hanno chiesto com’ero vestita quando quell’uomo ha cercato di violentarmi: ‘Tu hai un bel sedere. Magari lui non ha resistito alla tentazione. È normale’”.

    In Cile la violenza di genere è un argomento che si è annidato nella società, in particolare nell’ultimo anno. Dopo brutali casi di aggressione, i movimenti che lottano per i diritti delle donne hanno acquisito una nuova forza. #Niunamenos (Nonunainmeno) è lo slogan di un movimento femminile che rappresenta la rinnovata identità della lotta delle donne del Sud America.

    Lo stupro e le molestie sono solo uno dei brutti capitoli nella vita di Veronica. Il suo compagno ha tentato di ucciderla.

    Lei guarda verso il basso quando parla di lui, dell’uomo che due anni fa la ridusse in fin di vita. La sua voce si fa acuta e la gola le si chiude perché ancora non riesce a spiegare a se stessa come ha potuto subire una violenza simile.

    “Ricordo che lui mi staccava la pelle a morsi”, racconta Veronica. “Sono arrivata al pronto soccorso con l’utero lacerato, ma la nostre famiglie dicevano che non era poi così terribile. Che era un bravo uomo, solo molto geloso. All’epoca facevo la responsabile di un legnificio, ero a capo di un gruppo di uomini e questo lo infastidiva molto. Io cercavo di normalizzare la situazione ma era un crescendo di gelosia e possesso”.

    “Quella sera volevo uscire con dei colleghi ma lui diceva che non ne avevo il permesso”, continua la donna. “Io uscii lo stesso e lui mi cercò ovunque finché non mi trovò in un pub non lontano da casa. Mi fece salire su un taxi e mi portò nel suo appartamento. Avevo paura ma credevo che sarebbe stato solo l’ennesimo litigio. Una volta arrivati aprì la porta di casa e mi spinse dentro talmente forte che finii incastrata fra il divano e il muro”.

    “Lo guardai ed era irriconoscibile, era una bestia e mi si buttò addosso urlando che voleva sapere con chi lo avevo tradito”, racconta Veronica. “Cominciò a togliermi i vestiti, a odorarmi, a mordermi. Cercava tracce di un altro uomo, così mi infilò le mani dentro, strappandomi l’utero. Sentii un dolore disumano ma cercavo di difendermi con tutte le forze, pensavo ai miei figli”.

    Secondo i dati della procuratore nazionale, in Cile solo nel 2016 sono state registrate quasi 150mila denunce per violenza domestica, di cui il 49,38 per cento per lesioni. I media locali parlano di un aumento costante nel corso degli anni.

    Per Veronica non è facile ricordare quei momenti. Le sue parole si confondono con il pianto. “Anch’io lo picchiavo ma era per difendermi, lo giuro. Riccardo provò a baciarmi ed io gli morsi la lingua tagliandogliela. Gli usciva troppo sangue e lui me lo sputava addosso. A un certo punto cominciò ad accarezzarmi i capelli, voleva che gli dicessi che ero sua. Io feci tutto quello che voleva e pian piano si calmò”, prosegue Veronica.

    “Tutto a un tratto disse che dovevamo morire insieme quella notte e andò in cucina a prendere un coltello. Mi alzai senza far rumore, presi scarpe, cellulare e uscii da quella casa. Nuda e insanguinata correvo per il quartiere chiedendo aiuto, ma nessuno mi aprì la porta. Fermai un taxi per andare in questura, da dove poi mi mandarono al pronto soccorso. In quel momento capii che nessuno mi difenderà mai, siamo solo io e i miei figli. Ora sono più forte perché so che tutto dipende da me”.

    Veronica ha dipinto alcuni dei murales contro la violenza di genere a Lo Prado, quartiere della periferia di Santiago con il più alto tasso di delinquenza e dove si registra il numero maggiore di casi di violenza domestica. “Spero un giorno di poter parlare della mia esperienza senza piangere. Le ferite non sono ancora guarite ma grazie al sostegno delle donne del collettivo e soprattutto a me stessa so che supererò questo dolore”, dice a TPI.

    (Veronica sorride indossando la maglia con lo slogan #Niunamenos. Credit: Mariana Diaz Vasquez. L’articolo continua dopo la foto) 

    I murales del collettivo Red de Monitoras

    Veronica parla della Red de Monitoras, collettivo del quartiere che ha come obiettivo sostenere e orientare le donne che subiscono abusi o violenza di genere. “La nostra rete nasce nel maggio del 2016”, racconta la coordinatrice Liliana Neira. “Facciamo diverse attività ma quella che ha avuto più successo sono i murales. Il nostro messaggio arriva a molte più persone”.

    Il messaggio è stato colto da diverse donne. Una di loro è Maribel, 36 anni, tre figli e un marito che ama Anche lui la ama. L’uomo che non ha mai amato Maribel invece è stato suo padre.

    “Non riesco a superare il senso di colpa”, racconta Maribel. “Stavo così bene, ma ora sento di essere tornata indietro. Quando ero piccola mio papà picchiava mia madre e me. Quando litigavano dovevo nascondermi sotto il letto ma poi sentivo le urla di mamma e correvo a difenderla, così i pugni e i calci li prendevo anch’io. Sento tanta rabbia, tanta: vorrei ridargli tutti i pugni che lui mi ha dato ma non posso. È mio padre capisci?”

    “Ho subito la violenza di mio padre e da quando avevo dieci anni mio zio, il fratello di mia madre, cominciò a molestarmi finché non mi violentò”, prosegue Maribel. “Dopo alcuni anni presi coraggio e lo dissi a mia madre. Eravamo in cucina mentre lei tagliava delle verdure per il pranzo. Quando glielo dissi rimase ferma con il coltello in mano, si voltò e camminò verso la porta ma di scatto si girò verso di me. Senza guardare poggiò il coltello sulla verdura già tagliata, si asciugò le mani con il grembiule e venne dove ero seduta. ‘E tu cosa gli avevi fatto, perché l’hai sedotto, dimmi!’, urlava mentre mi teneva il mento con le sue mani umide e fredde”.

    “Lentamente ho superato i miei traumi”, racconta Maribel. “La mia famiglia è stato il motore del cambiamento. Convivo ancora con mio padre e i miei parenti mi giudicano perché lui adesso è malato ed io non sono disposta a prendermene cura come vorrebbero. Per lui faccio giusto il necessario. Vivo in un limbo di sensi di colpa”.

    (Uno dei murales di Lo Prado ricorda le vittime di femminicidio in CileCredit: Mariana Diaz Vasquez. L’articolo continua dopo la foto) 

    I murales di Lo Prado hanno vinto un importante riconoscimento a livello nazionale. Liliana, la coordinatrice, ricorda la cerimonia di premiazione “il premio è stato consegnatoci dalla presidente Michelle Bachelet e quando mi ci sono avvicinata le ho detto: presidenta, lei non è da sola. Noi ci siamo”.

    Le donne di questo collettivo s’incontrano una volta a settimana per parlare e raccontare come sta andando il proprio percorso verso la rinascita. TPI le ha accompagnate in uno di questi appuntamenti. Così, dopo Veronica, Maribel e Liliana, conosce anche Rosita.

    Lei arriva camminando di fretta, con un vestito leggero e lungo fino al ginocchio, i capelli lunghi, sciolti, spettinati ma a modo loro ordinati. Si siede a gambe aperte su una sedia e allunga la schiena alzando le braccia.

    “Ci hanno sempre detto di sederci come signorine”, spiega Rosita. “Io da quando ho divorziato non mi siedo più con le gambe incrociate. A me piace così. Io sono questo che vedi”.

    Lei ha 52 anni, due figli che frequentano l’università e due banchi al mercato della zona. “Quando ho lasciato mio marito mi dicevano che sarei morta di fame, che non ce l’avrei mai fatta”, prosegue la donna. “Ora ringrazio quelle persone di avermi dato la spinta ad andare avanti”.

    Il messaggio lanciato dai murales è chiaro e ha avuto un forte impatto nel quartiere. Molte donne hanno contattato le monitoras proprio grazie a questo. I graffiti sono stati posizionati in cinque zone strategiche e parlano di diverse tipologie di violenza: No alle molestie per strada, No alla violenza etnica o razziale, No alla violenza ostetrica, No alla violenza nella coppia e No alla strumentalizzazione del corpo delle donne sui mezzi di comunicazione.

    Per Rosita la rinascita avviene nel momento in cui si diventa consapevoli della violenza subita.

    “Tendiamo a nasconderci, a giustificare l’uomo aggressivo e a vergognarci della situazione, perciò non ne parliamo con nessuno”, dice la donna. “Mio marito mi picchiava persino per aver rotto un bicchiere e io pensavo che avesse ragione, dopo tutto aveva comprato lui quel bicchiere ed ero stata io a romperlo. Altre volte era perché la cena non era buona o perché nostro figlio era stato richiamato a scuola. È colpa mia, pensavo”.

    (Rosita. Credit: Mariana Diaz Vasquez. L’articolo continua dopo la foto) 

    Durante i 32 anni in cui durò il suo matrimonio Rosita subì sia violenza psicologica sia fisica. “Mi umiliava continuamente, anche di fronte ai nostri parenti. Dopo vennero le botte”.

    Quando si pensa alla violenza la prima cosa che viene in mente sono le aggressioni fisiche, ma prima degli schiaffi sono le parole quelle che infliggono il danno maggiore e la Red de Monitoras ha dato l’opportunità di rinascere e di cambiare il corso della loro vita a diverse donne.

    “Come al solito, quella sera litigavamo e lui mi disse che quella non era casa mia e che me ne dovevo andare”, spiega Rosita. “Mi cacciò via a notte fonda. Così mi trovai da sola a una fermata d’autobus, sotto la pioggia. Non avevo nessuno, tranne me stessa. Mi chiesi se meritavo quello che stava accadendo e la risposta è stata no. Ho promesso a me stessa di non tornare mai più in quella casa”.

    “Cosa esattamente ti ha fatto prendere consapevolezza della situazione?”, le chiedo.

    “Ho preso consapevolezza della situazione Quando ho capito di essere completamente da sola ma allo stesso tempo di non essere una vittima. In quel momento mi sono accorta della mia forza. Il cambiamento arriva quando pensiamo a noi stesse come donne capaci di cambiare la cose e smettiamo di provare vergogna”.

    “Sono riuscita a cambiare la mia vita. Ho un lavoro, ho comprato una macchina e la guido io. Guarda dove sono ora!”.

    (Il gruppo vicino ai murales contro la strumentalizzazione del corpo delle donne sui mezzi di comunicazione. Credit: Mariana Diaz Vasquez) 

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