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    Venezuela, un anno dopo il tentato golpe: nessuno ne parla più, ma oggi il paese vive il suo momento peggiore

    Crisi in Venezuela Credit: Ansa
    Di Paolo Rizzo
    Pubblicato il 25 Dic. 2019 alle 13:23 Aggiornato il 25 Dic. 2019 alle 13:41

    Era il 23 gennaio 2019 quando Juan Guaidó, presidente dell’Assemblea Nazionale venezuelana, si autoproclamò presidente ad interim del Venezuela. Sembrava l’inizio di una nuova era per il paese. Appoggiato dagli Stati Uniti, Guaidó si presentava come l’uomo in grado di rovesciare il regime chavista e di portare il paese al voto. Difatti, le elezioni del maggio 2018, che avevano confermato Nicolás Maduro per un secondo mandato, non erano state riconosciute dalla maggior parte della comunità internazionale.

    In pochi giorni il parlamento europeo, gli Stati Uniti, il Canada e dieci stati latinoamericani tra cui Argentina, Brasile, Cile, Colombia e Peru riconobbero Guaidó come presidente del Venezuela. Il mondo si mobilitava inviando aiuti umanitari e organizzando eventi al confine tra Colombia e Venezuela. Il regime chavista sembrava sull’orlo del collasso.

    Ma, contro ogni previsione e a quasi un anno di distanza, Maduro è ancora l’inquilino del palazzo presidenziale di Miraflores. Sostenuto dall’esercito venezuelano e dal presidente russo Putin, il regime ha represso le manifestazioni con la violenza. Secondo il chavismo, tra gennaio e maggio, i morti nelle proteste sarebbero stati 29 mentre per l’osservatorio venezuelano dei conflitti sociali (OVCS) furono 66.

    Numeri che non considerano l’uso indiscriminato della violenza da parte degli organi di polizia. Il regime stima che, nei primi mesi dell’anno, le morti riconducibili a la resistencia a la autoridad policial sarebbero state 1.569. Di contro i dati dell’OVCS, ripresi dalle Nazioni Unite, parlano di 2.124 morti.

    Eppure la violenta risposta alle proteste ha consolidato il potere del regime. Oggi il chavismo continua a controllare l’economia attraverso la produzione petrolifera. Il 2019, che sembrava essere l’anno del cambiamento, è diventato l’anno peggiore per il Venezuela. L’economia è in caduta libera, il dramma sociale si è acutizzato e la crisi politica è lungi dall’essere risolta.

    Per il Fondo Monetario Internazionale, tra il 2015 e il 2019, il PIL pro capite è passato da 10.500 a 2.500 dollari. Il PIL, che tra il 2016 e il 2018 si era ridotto a una media annuale del 17 per cento, nel 2019 è crollato di un ulteriore 35 per cento.

    Il tasso di disoccupazione è salito fino al 35 per cento. Il deficit fiscale per il 2019 sarà del 30 per cento mentre tra il 2015 e il 2018 era stato in media del 13 per cento. Per finanziare il deficit il governo è stato costretto a stampare moneta. L’inflazione è quindi schizzata al 65.000% nel 2018 e al 200.000 per cento per il 2019. Sarebbe a dire che negli ultimi 12 mesi i prezzi sono raddoppiati ogni mese.

    Il regime, che fino a qualche anno fa annunciava di volersi liberare dalla “oppressione del dollaro”, sembra essersi arreso a una progressiva dollarizzazione dell’economia. Si stima che ad oggi metà delle transazioni avvenga in dollari.

    Ma a farne le spese è la parte meno abbiente della società che riceve gli stipendi in bolivares. L’iperinflazione infatti continua a erodere potere d’acquisto e a svalutare il salario minimo. Secondo la Caritas venezuelana, a maggio erano necessari 30 salari minimi per acquistare il paniere alimentare basico.

    Un decreto presidenziale di ottobre ha poi fissato lo stipendio minimo mensile a 150.000 bolivares, l’equivalente di 8 dollari. Due mesi dopo, la continua svalutazione del bolivar ne ha portato il valore a 3 dollari. Lo stesso decreto ha attualizzato gli importi delle pensioni della pubblica amministrazione e il cestaticket socialista, il beneficio alimentare introdotto nel 2015.

    I loro valori sono stati equiparati al salario minimo mensile. L’emergenza sociale è così grave che le Nazioni Unite parlano di crisi umanitaria. In assenza di statistiche governative, i dati sulla povertà sono diffusi da università, ONG e istituzioni internazionali. Secondo l’indagine sulle condizioni di vita condotta da tre università del paese, il 91 per cento della popolazione vive in condizioni di povertà. Secondo la Caritas tre famiglie su cinque cercano cibo per strada.

    L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite riporta che solo una famiglia su tre ha accesso quotidiano all’acqua, che 3,7 milioni di persone sono in stato di malnutrizione e si registrano gravi carenze di medicine e metodi contraccettivi. Infine, contrariamente al resto dell’America Latina, negli ultimi anni è aumentata la mortalità infantile. Secondo la Caritas una delle cause sarebbe la malnutrizione acuta di cui soffre il 40 per cento delle donne in gravidanza.

    Di fronte a questi dati non sorprendono i numeri dell’esodo venezuelano. Un rapporto dell’UNHCR stima che oltre 4,5 milioni di venezuelani abbiano lasciato il paese dal 2015 18 . L’80 per cento si è rifugiato nei paesi dell’America Latina: è il più grande esodo nella storia del continente. In particolare, circa 1,4 milioni di venezuelani sono emigrati in Colombia. Seguono Peru (870mila), Ecuador (385mila), Cile (370mila), Stati Uniti (350mila), Brasile (224mila) e Argentina (145mila).

    Negli ultimi quattro anni il Venezuela ha perso il 10 per cento della sua popolazione. Inoltre, si stima che ogni giorno circa 5.000 venezuelani lasciano il paese, spesso viaggiando a piedi. Di questo passo, entro la fine del 2020, i rifugiati totali saranno 6,5 milioni.

    Non va meglio ai giacimenti petroliferi che resero il Venezuela uno dei paesi più ricchi al mondo. L’OPEC certifica che la produzione giornaliera sia passata da quasi 2 milioni di barili nel 2017 a meno di 700.000.

    Tra i motivi della diminuzione vi sono la mancanza di investimenti, la scarsa manutenzione degli impianti petroliferi e le sanzioni imposte da Trump. La conseguente caduta della produzione e la necessità economica di non tagliare le esportazioni genera enormi blackout che il regime giustifica come attacchi elettromagnetici o sabotaggi politici. Eppure il tentativo degli Stati Uniti di destituire Maduro attraverso l’isolamento si è rivelato finora fallimentare.

    Una soluzione pacifica per uscire dalla crisi sembra distante. Con un tasso di omicidi di 57 abitanti ogni 100.000 il paese è uno dei più violenti del mondo. Inoltre, parte dell’opposizione venezuelana vive in esilio, in clandestinità, in prigione o rifugiata nelle ambasciate.

    Qualche settimana fa, Pierferdinando Casini si è recato in Venezuela per riscattare due parlamentari venezuelani che, avendo perso l’immunità, si erano rifugiati da maggio presso l’ambasciata italiana a Caracas.

    Ad oggi la comunità internazionale è divisa tra chi riconosce Maduro e chi Guaidó. Recentemente due paesi dell’America Latina, El Salvador e Bolivia hanno espulso i diplomatici venezuelani.

    Ma mentre alcuni paesi interrompono i rapporti con il regime, altri continuano a legittimarlo. Paradossalmente, ad ottobre il Venezuela è diventato, con 105 voti, membro del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

    Una situazione ancora più paradossale considerando il recente rapporto dello stesso Consiglio sul Venezuela che denuncia violenze di stato e militarizzazione delle istituzioni, detenzioni arbitrarie, uso di torture, violenze sessuali durante le detenzioni, esecuzioni extragiudiziali, uso eccessivo di forza durante le proteste e privazioni della libertà.

    Eppure nonostante le violenze del regime, in una recente intervista al quotidiano spagnolo El País, Guaidó ha categoricamente escluso la possibilità di una operazione militare. La sua via d’uscita continua ad essere la convocazione di libere elezioni in cui, in presenza di osservatori internazionali, sia garantita la possibilità di scegliere liberamente i candidati.

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