Aveva assicurato che la tecnologia proveniente dalla sua startup non sarebbe mai stata impiegata «per scopi militari o di intelligence». Dieci anni dopo, da dirigente di uno dei giganti mondiali del tech, si è intestato la decisione di allentare i vincoli sull’uso dell’intelligenza artificiale in quegli stessi ambiti. È la parabola di Demis Hassabis, considerato il capo per l’intelligenza artificiale di Google, in cui è entrato nel 2014 dopo l’acquisizione della sua startup DeepMind. Mente brillante, capace di vincere il premio Nobel per la Chimica nel 2024 per lo sviluppo di un sistema di intelligenza artificiale che calcola le strutture tridimensionali delle proteine, ha assunto un ruolo sempre più rilevante nelle strategie del colosso di Mountain View. Solo per quest’anno la capogruppo Alphabet intende infatti investire 75 miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale, diventata il nuovo orizzonte per garantire la crescita della prima azienda tech per utili, alle prese con la concorrenza serrata degli altri colossi della Silicon Valley.
L’obiettivo non è solo di sviluppare applicazioni per utenti finali e aziende, ma anche rivolgersi a una clientela sempre più remunerativa: quella dei governi e delle agenzie per la sicurezza. Un cambio di rotta che stride rispetto ai propositi utopistici che fino a qualche anno fa dominavano la comunicazione dei giganti del settore e sta determinando una profonda trasformazione all’interno della Silicon Valley.
Nuovi equilibri
A fare gola, per un settore alla ricerca di nuove prospettive di crescita, è l’enorme torta della spesa militare. Attualmente gli Stati Uniti spendono circa 850 miliardi di dollari all’anno per le loro forza armate, più di un terzo della spesa militare a livello globale, che supera i 2.700 miliardi di dollari. Una somma destinata a crescere con gli aumenti previsti per i prossimi anni in Europa e anche negli Stati Uniti, dove Donald Trump ha annunciato che nel 2026 il budget per la difesa arriverà a 1.000 miliardi.
Fondi a cui negli scorsi decenni hanno avuto accesso esclusivo i cosiddetti “prime”, colossi del settore degli armamenti come Lockheed Martin, Boeing e Raytheon (ora RTX) a cui è sempre spettato il ruolo di contraente generale, o “prime contractor”, nei maxi-appalti del Pentagono. Negli ultimi anni però il settore del tech ha cercato di scardinare questo equilibrio, promettendo una rivoluzione nel mondo degli armamenti.
Un esempio è rappresentato da Palantir, diventata la prima azienda software ad aggiudicarsi un appalto del dipartimento di Difesa per un sistema hardware con un ruolo di contraente “prime”, battendo la concorrenza di RTX per un appalto da 178 milioni di dollari. Il primo “prime”, secondo Bloomberg, a emergere dai tempi di General Dynamics, più di 70 anni fa.
L’esempio Palantir
Criticata da attivisti per i diritti umani per l’utilizzo dei suoi strumenti a fini di sorveglianza e per il rapporto di lunga data con l’esercito israeliano, consolidato anche durante la campagna nella Striscia di Gaza, negli ultimi anni Palantir è stata una delle aziende più premiate dagli investitori. Dall’inizio dell’anno ha registrato una crescita dell’80 per cento, che collocano il titolo tra i migliori per rendimento dell’indice S&P 500.
Secondo gli analisti questo entusiasmo è giustificato, oltre che dal primato tecnologico, anche dalla vicinanza tra l’azienda, che annovera tra i suoi fondatori l’investitore Peter Thiel, e l’amministrazione Trump. Uno dei co-fondatori di PayPal, Thiel è stato uno dei primi sostenitori dell’attuale presidente statunitense e ha legami stretti con importanti esponenti del Congresso. Tra questi c’è JD Vance, che Thiel aveva appoggiato nella campagna per un seggio al Senato nel 2022, prima che diventasse vice di Trump.
Da quando si è insediato alla Casa bianca, Vance ha sostenuto con forza la causa del rinnovamento delle forze armate. «Non dobbiamo avere paura di nuove tecnologie che sono produttive, anzi, dovremmo cercare di essere predominanti», ha detto a marzo Vance, intervenendo alla conferenza American Dynamism, sottolineando che «questo è certamente ciò che questa amministrazione vuole realizzare».
Il progetto “Golden Dome”
Una filosofia che si è tradotta nell’invito esplicito alla partecipazione di realtà «non tradizionali» a uno dei progetti su cui l’amministrazione Trump sta puntando maggiormente. Si tratta del progetto dello scudo missilistico “Golden Dome” voluto da Donald Trump, uno dei terreni su cui si sta disputando lo scontro tra i lobbisti della Silicon Valley e quelli dei gruppi tradizionali di armamenti.
La proposta, ispirata all’Iron Dome israeliano, è di realizzare uno scudo spaziale per proteggere gli Stati Uniti dalle minacce missilistiche provenienti da Paesi come Russia e Cina. Secondo il tycoon il sistema sarà operativo in tre anni al costo di 175 miliardi di dollari, cifre che molti esperti ritengono improbabili. Per le aziende tecnologiche sarà l’occasione per dimostrare che sono pronte a competere direttamente con i giganti della difesa. Tra i partecipanti, secondo il Financial Times, ci saranno big come Microsoft, che come Google e OpenAI recentemente ha aumentato le vendite di servizi cloud e di intelligenza artificiale a scopi militari. Ma accanto ad attori più affermati come Palantir o SpaceX di Elon Musk ci sono anche le realtà più piccole, ossia le startup che hanno ricevuto valutazioni di almeno 1 miliardo di dollari (dette unicorni), che puntano a diventare i colossi del futuro cavalcando l’onda della spesa in armamenti. Tra questi ci sono nomi come C3 AI, Epirus, Saronic, ScaleAI, Shield AI e True Anomaly. E anche Anduril, società in cui ha investito lo stesso JD Vance nella precedente carriera di venture capitalist.
Regole diverse
In questo nuovo contesto, in cui il rapporto tra le principali aziende tecnologiche e il Pentagono continua a farsi più stretto, le regole del passato non valgono più. Anche per questo lo scorso febbraio Google ha aggiornato i suoi principi etici sull’intelligenza artificiale, rimuovendo i limiti che si era posta sul suo utilizzo a fini di sorveglianza o in ambito militare. Per io colosso di Mountain View la modifica delle regole ha rappresentato la chiusura ideale di un cerchio. I principi sull’intelligenza artificiale, oggetto della revisione di febbraio, erano stati pubblicati per la prima volta nel 2018, dopo che i dipendenti avevano protestato contro un contratto con il Pentagono, che prevedeva l’applicazione di algoritmi di visione artificiale, sviluppati dall’azienda, per analizzare le riprese dei droni.
«Crediamo che Google non dovrebbe occuparsi di guerra», riportava una lettera aperta all’ad di Google firmata da migliaia di lavoratori. Sette anni dopo il capo di Google per l’intelligenza artificiale, Demis Hassabis, e il senior vice president per la tecnologia e la società, James Manyika, hanno dovuto spiegare la decisione di cambiare quelle regole, citando un contesto geopolitico «sempre più complesso», che rende necessaria una collaborazione tra «aziende, governi e le organizzazioni» per «creare un’intelligenza artificiale che protegga le persone, promuova la crescita globale e sostenga la sicurezza nazionale». Lo stesso Hassabis che in un’intervista con Wired del 2015 aveva illustrato in termini netti la sua richiesta a Google al momento dell’acquisizione della sua startup DeepMind. «Un vincolo che abbiamo», aveva detto, «è che nessuna tecnologia proveniente da Deep Mind verrà utilizzata per scopi militari o di intelligence».