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    Antony Blinken, il diplomatico Usa che aspira alla Casa bianca

    Credit: AP Photo

    Ha iniziato scrivendo i discorsi di Clinton e dal 2002 è nell’entourage di Biden. Non è un pacifista ma è antitetico al trumpismo. Il segretario di Stato americano ha la politica nel sangue e aspetta il suo turno per la nomination del 2028

    Di Roberto Bertoni
    Pubblicato il 19 Nov. 2023 alle 08:30

    Nato a Yonkers, nello stato di New York, il 16 aprile 1962, Antony Blinken è lo Sean Connery della diplomazia americana. Uomo di indubbio fascino, di studi approfonditi e di solide radici europee, costituisce la quintessenza del pensiero democratico in chiave obamian-bideniana, al punto di aver dichiarato che la sua relazione con Biden è «la più vicina al rapporto padre-figlio che si possa avere senza essere imparentati».

    Figlio di Judith Frehm e Donald Blinken, i nonni materni erano ebrei ungheresi e quelli paterni ebrei ucraini. Non solo: suo padre fu ambasciatore americano in Ungheria, suo zio Alan invece in Belgio, mentre il nonno, Maurice Henry, fu tra i primi sostenitori dello Stato di Israele e tra i fondatori dell’American Palestine Institute, oltre a commissionare uno studio di fattibilità economica sulla creazione e sostenibilità dello Stato ebraico indipendente.

    La vita è bella
    Quando la madre, dopo il divorzio dal padre Donald, sposò Samuel Pisar, il giovane Antony, i cui nonni paterni avevano trovato rifugio negli Stati Uniti dopo essere scappati dai pogrom in Russia, venne in contatto in maniera ancora più intima con il tema dell’Olocausto.

    Pisar, difatti, era l’unico della sua famiglia a essere sopravvissuto ad Auschwitz e Dachau. Come ha raccontato su “Sette” (inserto settimanale del “Corriere della Sera”) Marilisa Palumbo, «durante le audizioni per la sua conferma al Senato, nel 2021, Blinken ne raccontò la fuga disperata durante una marcia forzata, l’attesa nei boschi fino alla vista di un carro armato americano. Di inglese quel bambino conosceva tre parole, e le usò: «God bless America» . Il soldato «lo sollevò portandolo dentro il tank, dentro la libertà, dentro l’America».

    È da quel racconto, spiegò, che si è formata la sua idea del «ruolo degli Stati Uniti nel mondo». Sembra la trama de “La vita è bella”, il capolavoro di Benigni che si conclude, per l’appunto, con il piccolo Giosuè preso in braccio da un soldato americano, felice come una Pasqua perché convinto di aver vinto il carro armato vero che gli aveva promesso suo padre per tenerlo lontano dall’orrore della deportazione, restituito alla vita e alla libertà dal trionfo della democrazia sulla barbarie nazista. E pazienza se Auschwitz venne liberato dai sovietici: il messaggio passò e fu un bene per tutto l’Occidente, oggi in crisi politica e democratica come mai lo era stato nella sua storia, almeno dalla Seconda guerra mondiale in poi. Si tratta, tuttavia, di una storia che spiega meglio di ogni altra riflessione quale sia il ruolo dell’universo ebraico negli Stati Uniti e quante difficoltà incontri la moderata amministrazione Biden a fronteggiare persino un falco come Netanyahu.

    Il falco
    Attenzione, però, a non commettere l’errore di pensare che Blinken sia una colomba. Non è così. Nonostante l’infanzia trascorsa a Parigi e gli studi ad Harvard e alla Columbia University, il ruolo di “speechwriter” di Clinton e la lunga collaborazione con Biden, iniziata nel 2002, quando ricopriva il ruolo di direttore del personale democratico della Commissione Esteri del Senato, l’attuale segretario di Stato Usa è a sua volta un falco, convinto che la diplomazia non possa fare a meno della deterrenza. In questo, va detto, è molto clintoniano, figlio della visione ottimista dell’America degli anni Novanta, quella che coltivava l’illusione della “fine della storia” e di un nuovo secolo americano, senza nemmeno doversi più preoccupare dell’Orso sovietico, a quei tempi in piena decadenza e anche per questo coccolato dalle varie amministrazioni statunitensi, sia democratiche che repubblicane.

    Blinken, dal canto suo, è particolarmente aspro sul tema militare. Sostenne, ad esempio, l’intervento del 2003 in Iraq e fu addirittura in contrasto con Obama, quando dieci anni dopo non volle dar vita a un’escalation in Siria, e con lo stesso Biden, che era contrario all’intervento in Libia.

    Insomma, non parliamo certo di un pacifista, in questo in perfetta sintonia con i capisaldi della politica estera israeliana, da sempre fonte d’ispirazione anche per quella a stelle e strisce.

    Ucraina e Medio Oriente
    Non deve sorprendere, dunque, la sua politica ultra-interventista in Ucraina, anche in virtù delle origini familiari già menzionate all’inizio. Blinken, per dire, si è opposto all’idea di non consegnare alcuni tipi di armi per non provocare eccessivamente la Russia. Ed è considerato il volto effettivo dell’America e dell’Occidente nelle crisi che stanno dilaniando il nostro tempo: in Ucraina, con un interventismo che non ammette repliche, e in Medio Oriente, con un’azione politica che ha favorito la visita di Biden in Israele. 

    Ben cosciente del fatto che i rapporti fra il presidente americano e Netanyahu siano pessimi, il nostro ha fatto la sua parte, com’era avvenuto più volte in passato. Se Biden è un reduce della Guerra fredda, uno che i premier israeliani degli ultimi cinquant’anni li ha conosciuti tutti, Blinken potrebbe esserne l’erede. Hanno lavorato insieme in molteplici occasioni, spesso delicate, e insieme a Jake Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale, questo diplomatico col coltello tra i denti costituisce la spina dorsale dell’amministrazione americana. Ricorda, a tal proposito, John Kerry, a sua volta dotato di un francese fluente, di un europeismo profondo e di un profilo antitetico rispetto al trumpismo arrembante oltreoceano.

    Futuro presidente?
    Come spesso capita da queste parti, ahinoi, tendiamo a dimenticarci che il presidente degli Stati Uniti ha un’influenza sul resto del mondo ma lo votano gli americani. E come Kerry venne battuto da Bush, il rischio di bruciarsi anche per Blinken è altissimo. Troppo moderato, troppo legato a una stagione ormai tramontata (quella post-abbattimento del Muro di Berlino e pre-11 settembre), con il serio rischio di apparire fuori dal tempo e dalla realtà. Certo, avrebbe un profilo più fresco rispetto a quello di Biden, ma non è detto che gli americani vogliano cambiare, che sotto sotto non apprezzino due personalità provenienti dal cuore del Novecento, vetusti nel modo di parlare e di essere ma terribilmente in sintonia con le viscere di una Nazione impaurita, prigioniera dello sconforto e non certo votata a chissà quale rivoluzione.

    La nostra sensazione, per quanto amara, è pertanto che oggi, a differenza del 2008, quando ancora si credeva in qualcosa, Obama perderebbe. Non è tempo di sogni e speranze, di possibilità ed emozioni. Si preferisce la concretezza, la conservazione dell’esistente, l’usato sicuro. E Blinken deve averlo capito alla perfezione. Non a caso, si tiene stretto il suo ruolo e non dà alcuna impressione di voler puntare più in alto, almeno per ora. In parte, ne siamo convinti, per riconoscenza nei confronti del pigmalione Joe. In parte, ne siamo ancora più convinti, perché punta al prossimo giro, quando Biden sarà comunque fuori dai giochi e i democratici avranno bisogno di cambiare tutto per avere un futuro. Il peggiore avversario, a quel punto, potrebbe essere se stesso, dato che Blinken degli errori e del declino dell’America ne è stato protagonista, condividendo quell’illusione di onnipotenza di cui oggi, a livello planetario, stiamo pagando il prezzo. E allora l’allure, la finezza intellettuale e il saper suonare la chitarra potrebbero non bastare per far dimenticare a un Paese a pezzi le sue non poche responsabilità.

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