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    L’ultimo migrante rimasto nel centro di detenzione ad Abu Aissa di Zawiya, vicino a Tripoli

    La terza puntata del diario di Nancy Porsia su TPI racconta la storia di Agum, che si trova in Libia e non può tornare in Nigeria né andare in Europa su un barcone

    Di Nancy Porsia
    Pubblicato il 9 Dic. 2016 alle 13:50 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:55

    DIARIO DI NANCY PORSIA. ZAWIYA, LIBIA – La porta in ferro è aperta. Sullo sfondo, in controluce, si staglia la sagoma di un uomo su una sedia a rotelle, riverso sulla sua porzione di cibo in un contenitore d’alluminio. Gli chiedo come si chiama, a malapena se lo ricorda e la sua voce flebile non mi aiuta a capire per appuntarmelo. Gli chiedo di scrivermelo.

    Agum, nigeriano di 33 anni, è l’unico migrante presente nel centro di detenzione Abu Aissa di Zawiya, 30 chilometri a ovest della capitale Tripoli. Fino allo scorso ottobre, la struttura di Abu Aissa contava oltre 1700 profughi.

    “Era notte, stavo dormendo e mi svegliai per le urla”, ricorda Agum. “Tutti scappavano. Io ci provai, ma un poliziotto mi sparò alla gamba”. Una notte dello scorso marzo, nel carcere per migranti Al Nasser, sempre a Zawiya, i migranti hanno tentato una fuga in massa. Le guardie hanno risposto con il fuoco, causando cinque morti e decine feriti.

    “Mi portarono in ospedale. Poi mi sono ritrovato qui” racconta Agum, muovendo le mani alla velocità di un film alla moviola. “Sono sei mesi che sono qui. No, forse di più. Non lo so, sono confuso”. Tutti i sopravvissuti della notte di mattanza al centro Al Nasser sono stati trasferiti al centro Abu Aissa.

    “Da quel giorno abbiamo subito diversi attacchi armati”, interviene il direttore Khaled Toumi, mentre offre ad Agum una sigaretta in segno di umanità. Agum accenna una distratta gratitudine e accetta la sigaretta.

    “Le milizie volevano riprendersi i migranti e rimetterli in mare, perché questo è il loro business”, spiega Toumi. “Io ho gettato la spugna e lo scorso ottobre ho fatto trasferire tutti a Tripoli”. Quel giorno Agum ha chiesto di restare, nella sua stanza, sulla sedia a rotelle, lì dove l’ho trovato.

    “Che pensi di fare?”, gli chiedo. “Non so”, mi risponde. Gli propongo di fare richiesta per il rimpatrio volontario con l’Organizzazione internazionale per la migrazione e lui annuisce, dopo averci pensato un attimo.

    Agum nel centro di detenzione di Abu Aissa. Credit: Nancy Porsia. (Il pezzo prosegue dopo la foto). 

    “Amico mio, sei sicuro? Vuoi davvero tornare in Nigeria?”, dice il direttore sobbalzando dalla sedia e guardandomi con il fare di chi si confida. “Questi vogliono andare tutti in Europa”.

    Colgo il messaggio. Ora sono io quella confusa. Il direttore non se la sente di rispedire a casa Agum e porre fine al suo sogno di una nuova vita nel continente europeo.

    Mi sento disarmata. Gli chiedo di chiamare un dottore per una visita. “Ok, tra un paio d’ore lo passiamo a prendere e gli facciamo un altro controllo alla gamba”, conferma il Toumi dopo essersi consultato al telefono con un medico.

    Nella stanza di Agum l’aria è impregnata di staticità. Né il rimpatrio né il viaggio su un barcone sembrano fare al caso suo. Finisco le mie cartucce. L’unica cosa che mi viene in mente è fargli fare una telefonata a casa, in Nigeria, dal mio cellulare.

    Agum non ricorda il numero di casa: si porta le mani alla fronte, disperato, o forse imbarazzato. Fuori non ha nessuno, e non ricorda il numero di casa, unico contatto con la sua vita precedente. 

    Le puntate precedenti del diario di Nancy Porsia dalla Libia per TPI: 

    – Io, manager libico, vi racconto come viaggiare dalla Libia è diventato un miraggio

    – Tra la vita e la morte dentro un ospedale da campo a Sirte, in Libia
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