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    La Turchia ha rimesso in carcere il presidente di Amnesty International

    A sole 24 ore dalla scarcerazione di Taner Kiliç, un tribunale ha ribaltato la sentenza. Il presidente della Ong in Turchia rischia una condanna fino a 15 anni di carcere

    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 1 Feb. 2018 alle 17:47 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:24

    Dopo sole 24 ore, è stata clamorosamente ribaltata la sentenza che, il 31 gennaio 2018, aveva portato alla scarcerazione del presidente di Amnesty International in Turchia Taner Kiliç.

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    Kiliç è sotto processo da otto mesi, accusato di legami con la rete di Fetullah Gülen, il predicatore ed oppositore di Erdogan in esilio negli Stati Uniti. Gülen è considerato dal governo turco la mente del fallito colpo di stato del 15 luglio 2016.

    Il 31 gennaio un tribunale aveva accolto la richiesta di scarcerazione avanzata dagli avvocati di Taner Kiliç, disponendo per lui la libertà condizionale.

    Tuttavia, il 1 febbraio è stato accolto il ricorso presentato dal pubblico ministero. Kilic, dunque, dovrà tornare in carcere, a tre mesi dalla decisione di un’altra corte di Istanbul, che nel processo agli altri 11 attivisti di Amnesty arrestati all’inizio di luglio, aveva decretato la scarcerazione di otto di loro per la scadenza dei termini di carcerazione preventiva.

    Kiliç è stato arrestato per la prima volta la mattina del 6 giugno 2017, insieme ad altri 22 avvocati, nella città di Smirne. Ad ottobre è iniziato il processo a suo carico, accorpato a quello degli 11 attivisti e della direttrice di Amnesty International in Turchia Idil Eser.

    Tutti gli imputati rischiano condanne estremamente pesanti, che prevedono pene fino a 15 anni di carcere.

    Nel caso di Kiliç, la sua detenzione è stata motivata dall’utilizzo della app Bylock, che i magistrati turchi ritengono sia stata usata dai golpisti per scambiare comunicazioni cifrate.

    Avvocato da sempre in prima fila nella difesa dei diritti umani, Kilic ha anche curato la difesa del giornalista italiano Gabriele Del Grande, che fu trattenuto in stato di fermo in Turchia ad aprile 2017.

    Il caso getta nuove ombre sulla Turchia – uno stato chiave per la NATO che confina con Iraq, Iran e Siria – e sul suo presidente Recep Tayyip Erdogan, accusato da più parti di aver impresso una svolta autoritaria nel paese.

    Dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016, infatti, in Turchia sono stati arrestati centinaia di giornalisti e attivisti. Molte altre persone sono state rimosse dalle loro professioni.

    Dal 18 gennaio, inoltre, la Turchia ha avviato un’operazione militare contro i curdi siriani nel distretto di Afrin, a nord di Aleppo. Ankara ritiene l’operazione un passo necessario per colpire i militanti YPG, che Erdogan considera dei terroristi legati al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

    Negli ultimi giorni, un’inchiesta dell’Independent ha fatto luce sulle drammatiche storie dei civili curdi colpiti dai bombardamenti dell’esercito turco.

    Lunedì 5 febbraio il presidente turco Erdogan sarà in visita a Roma, dove incontrerà papa Francesco, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

    Per l’occasione, verranno impiegati circa 3.500 agenti delle forze dell’ordine. Sono infatti previste manifestazioni di protesta da parte di attivisti filo-curdi e per i diritti umani. Tra i motivi delle dimostrazioni ci sarà anche, per l’appunto, l’incarcerazione del presidente di Amnesty International in Turchia.

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