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    Il tempio di Istanbul dove nessuno può pregare

    La Turchia è un paese a strati, composto da diverse culture e storie che coesistono. La basilica di Santa Sofia è uno dei simboli di questa stratificazione. La sesta puntata della rubrica "Voci dalla strada" firmata da Carlo Brenner

    Di Carlo Brenner
    Pubblicato il 15 Giu. 2017 alle 15:12 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:49

    Voci dalla strada raccoglie le opinioni e la visione del mondo di gente comune. Non ha la pretesa di analizzare, ma vuole presentare diverse e molteplici verità, raccontate dalla voce essenziale e spontanea di chi vive la storia sulla propria pelle, senza facili e variabili categorizzazioni esterne.

    Ayasofia, Istanbul

    Ci sono due cose che voglio vedere ogni volta che vado a Istanbul: la tomba di Enrico Dandolo e la lapide di marmo nero sulla quale c’è scritto che Ayasosofia è un posto dove “everybody can enter, nobody can pray” (tutti possono entrare, nessuno può pregare). Peccato che la prima esista, situata al piano del matroneo di Ayasofia mentre la seconda no. Chissà perché me la ricordo così chiaramente però.

    La Turchia è un paese stratificato: è composto da diverse culture e storie che coesistono. Questa caratteristica è rappresentata simbolicamente proprio da Ayasofia (o basilica di Santa Sofia) uno suoi più bei monumenti. Mi sono sempre chiesto per quale motivo tutti i paesi, per quanto abbiano visioni, culture e storie completamente diverse, anche in contrasto, abbiamo tutti condiviso pacificamente che il loro simbolo nazionale debba essere lo stesso: un rettangolo colorato con dei disegni, chiamato “bandiera”.

    Tutti i paesi racchiudono le loro convinzioni, la loro fede e la loro identità in un fazzoletto colorato uguale come forma (a parte Città del Vaticano e Svizzera che sono quadrate e il Nepal che è composto da 2 triangoli sovrapposti). Nel caso della Turchia credo invece che Ayasofia sia un simbolo che rappresenta meglio il suo paese di una bandiera.

    Nata come chiesa cristiana ma costruita con materiali provenienti dai templi pagani è poi stata convertita in moschea nel 1453, dopo la presa di Costantinopoli, lasciando intatta la struttura originaria con i suoi mosaici raffiguranti Cristo. Intorno all’edificio vengono innalzati i minareti e all’interno vengono posti dei tabelloni circolari con i nomi di Allah, Maometto, i primi califfi e due nipoti di Maometto. Infine, Ataturk nel 1935, dichiara che Ayasofia non è più né una moschea né una chiesa ma diventerà un museo dove “everybody can enter, nobody can pray”, un simbolo di pace.

    Rompo le scatole ad Ayla da quando sono atterrato per andare a vedere entrambi i miei punti di riferimento ad Ayasofia. Ovviamente lei non ha nessuna voglia, come tutte le persone che sono cresciute in un posto e, senza neanche rendersene conto, danno per scontate tutte le attività turistiche. Arriviamo al museo e mettiamo in competizione le reciproche abilità nell’accorciare al massimo la coda mettendoci in due file diverse: vince il Medio Oriente.

    La porto al matroneo a vedere la lapide di Enrico Dandolo, il Doge Veneziano che lei non ha la più pallida idea di chi sia. Le racconto che Dandolo era il Doge cieco che ha condotto la quarta crociata e ha conquistato Costantinopoli nel 1204, provocando un terribile incendio e rubando i quattro cavalli di bronzo che ora sono ora esposti fuori dalla Basilica di San Marco a Venezia.

    La storia la incuriosisce ma forse è più incuriosita dal fatto che a me interessi andare a vedere questa piccola lapide che passa inosservata agli occhi della maggior parte dei visitatori. Giunti di fronte mi faccio un segno della croce, non perché sono credente ma perché mi sembra un buon modo di salutare un morto.

    Vedo con la coda dell’occhio che Ayla fa lo stesso. In quel momento però mi viene in mente che lei è sunnita quindi le chiedo “ma hai fatto il segno della croce?”. Lei annuisce. Le chiedo perché lo abbia fatto e mi risponde “così, posso fare quello che voglio, alla fine l’Islam riconosce il cristianesimo e Cristo come una parte della sua evoluzione”. Penso quindi a quanti significati diversi si possano dare alla stessa cosa: chi usa l’Islam per combattere gli infedeli e chi, al contrario, lo interpreta come religione inclusiva.

    Prima di scendere guardiamo la chiesa dal reticolato di marmo del matroneo, costruito per permettere alle donne di poter assistere alle cerimonie senza essere viste. Da questa posizione vediamo benissimo i tabelloni con scritti in arabo i nomi di Maometto, Allah, i primi Califfi e i nipoti di Maometto. È Ayla che mi aiuta a dare un senso a questi simboli per me provi di significato.

    Ora mi manca da trovare solo l’iscrizione di Ataturk sul blocco di marmo nero ma non capisco dove possa essere. Ayla inizia a spazientirsi ma io mi ostino. Vado a chiedere ad una guida, quella chiusa in un gabiotto a vendere audioguide. Gli racconto la storia di quello che sto cercando ma non capisce, mi dice che non c’è niente di tutto questo. Mi ostino ancora. Provo a chiedere ad una guardia di sicurezza: penso che un turco più verace si ricorderà sicuramente le azioni di Ataturk. Infatti è così, mi indica un punto vicino all’entrata. Vado a vedere ma trovo solamente i tabelloni descrittivi del monumento dove, effettivamente, c’è anche scritto che Ataturk ha dichiarato Ayasofia un posto dove “everybody can enter, nobody can pray”.

    A questo punto mi arrendo, è evidente che la lapide di marmo nero è un ricordo solo della mia testa, chissà come c’era entrato con tutta questa chiarezza. Quello che più importa però è che dalla testa non esca il concetto: le varie stratificazioni che compongono Ayasofia, non solo per me, ma perché quella è la bandiera della Turchia.

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