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    Come può ripartire il Sudafrica dopo i disastri della presidenza Zuma

    Jacob Zuma. Credit: AFP

    Il Sudafrica, avviatosi in anni recenti lungo una preoccupante parabola politica ed economica, aveva indubbiamente bisogno di un cambio di rotta. L'analisi di Giovanni Carbone per ISPI

    Di TPI
    Pubblicato il 15 Feb. 2018 alle 17:29 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 17:06

    Aprire una nuova stagione, voltare pagina, per un paese richiede quasi inevitabilmente cambiare leader. Da un punto di vista simbolico, anzitutto, ma anche come portatore di una nuova visione, idee più fresche e interessi diversi.

    Il Sudafrica, avviatosi in anni recenti lungo una preoccupante parabola politica ed economica, aveva indubbiamente bisogno di un cambio di rotta, come auspicammo un anno e mezzo fa in un rapporto ISPI intitolato proprio South Africa: The Need for Change.

    Oggi quel cambio di rotta si è concretizzato. La caduta di Jacob Zuma rimuove il principale ostacolo – certo non l’unico – sulla strada del rilancio dell’ex-nazione arcobaleno, la cui immagine e realtà sono state densamente offuscate da una presidenza rovinosa.

    Solo una parte della storia recente del paese la raccontano i dati: una crescita più che dimezzata rispetto agli anni di Thabo Mbeki (dal 4,2 per cento annuo nel 2000-2008 al 1,5 per cento nel 2009-2017, incluso un 2016 fermo quasi a zero), una disoccupazione ormai al 26,7 per cento, e di riflesso un aumento della povertà, l’ampliarsi dell’indebitamento pubblico e la perdita di valore del rand, la valuta nazionale.

    Il Sudafrica degli anni di Zuma è un paese in cui, con scioperi, scontri e violenze anti-immigrati, sono venute alla luce le lacerazioni di un tessuto sociale comunque fragile, già alle prese con la delicata eredità delle relazioni razziali dell’apartheid e livelli di disuguaglianza senza pari (primo paese al mondo secondo le stime della Banca Mondiale).

    È l’economia più sviluppata del continente finita sotto una leadership che, abile a guadagnare la presidenza, si è poi mostrata nei fatti inconsistente in termini di capacità di far progredire il paese e, soprattutto, profondamente corrotta.

    Zuma, “uomo del popolo” dall’affabile risata e un istinto per danza e canti, ha tradito proprio il suo popolo, quello fatto di sudafricani comuni e diseredati che l’avevano appoggiato aspirando legittimamente ad una più rapida redistribuzione della ricchezza, ma sono stati ripagati da una spirale di malgoverno e corruzione che è sembrata senza fine.

    L’indagine sui guadagni illeciti legati all’acquisto di armamenti, le accuse di stupro, lo scandalo dell’impiego di denari pubblici per ristrutturare la sua villa privata, l’intreccio di rapporti politico-economici con gli ormai famigerati Gupta, famiglia di affaristi di origine indiana con interessi ramificati in tutti i maggiori settori dell’economia sudafricana e una stupefacente capacità di influenzare le scelte di Zuma, incluse quelle ministeriali.

    Una leadership pressoché senza direzione – al di là di un generico interesse alla sopravvivenza politica – che ha fatto perdere direzione all’intero paese. Ma con il suo epilogo, la vicenda di Jacob Zuma potrà forse essere letta anche come la dimostrazione che, al momento del bisogno, il Sudafrica ha ancora una volta mostrato di possedere i giusti anticorpi.

    La corruzione è stata denunciata in modo sistematico, più di quanto in genere avvenga in gran parte del continente, grazie alle solide tradizioni di giornalismo indipendente e di mobilitazione della società civile, ma anche all’autonomia dei giudici e del Public Protector, che due anni fa dettagliò in un’indagine dall’evocativo titolo State of capture la commistione di affari e politica fiorita attorno a Zuma.

    Hanno funzionato anche i meccanismi elettorali perché, nonostante l’African National Congress controlli quasi due terzi dei deputati nell’Assemblea Nazionale, lo shock prodotto dai risultati delle elezioni locali del 2016 (dove l’ANC si fermò al 54 per cento dei consensi – il suo minimo storico – con la perdita di alcune grandi municipalità: non solo Città del Capo, già nelle mani dell’opposizione, ma anche Johannesburg, Tshwane/Pretoria e Port Elizabeth) ha funzionato da campanello d’allarme.

    Possibile che per l’ex-movimento di liberazione si profilasse l’impensabile e inaccettabile, ovvero la perdita del governo nazionale alle elezioni politiche del 2019?

    Il partito – all’interno del quale non mancano forze ancora impegnate per il progresso del paese e il benessere dei sudafricani – ha reagito, e la reazione ha per ora funzionato.

    Al potere incontrastato da ormai quasi un quarto di secolo, l’ANC sembrava soffrire proprio dell’assenza di uno sfidante credibile, in grado di tenerne alta l’attenzione e incentivare maggiormente il gruppo al governo a produrre risultati tangibili.

    Ma come nel 2008 l’organizzazione che era stata di Mandela aveva mostrato grande vitalità democratica, permettendo allo stesso Zuma di scalarne con successo la leadership e subentrare all’acerrimo avversario Mbeki (prima alla presidenza dell’ANC, poi a quella della Repubblica), così questo ampio e complesso “partito chiesa” ancora una volta ha saputo rinnovarsi, o almeno mostra di volerci provare.

    Nel dicembre scorso Cyril Ramaphosa era uscito vittorioso – seppur non trionfante – da un drammatico Congresso di partito che lo aveva incoronato solo di misura a scapito di Nkosazana Dlamini-Zuma, ex-presidente della Commissione dell’Unione Africana e, soprattutto, ex moglie di Zuma e “garante” della continuità politica.

    Scacco matto: quale fosse il destino del presidente sudafricano era a quel punto chiaro.

    Ex-sindacalista e capo del team dell’ANC che negoziò con il regime il superamento dell’apartheid, Ramaphosa si era in seguito abilmente tramutato in imprenditore quando capì che il successore di Mandela non sarebbe stato lui, ma Mbeki.

    Beneficiando indubbiamente dei legami con il partito e delle politiche di promozione dei neri per il riequilibrio socio-economico, e senza peraltro riuscire ad evitare controversie, anche importanti, Ramaphosa è diventato in pochi anni uno degli uomini più ricchi del paese.

    Rientrato nell’agone politico nel 2012, quando ottenne con l’appoggio di Zuma stesso la vicepresidenza del partito e poi della Repubblica, oggi prende il timone per imprimere al Sudafrica, come detto, il primo, necessario cambio di rotta.

    Ora toccherà vedere quanto un leader politico di provata capacità sarà in grado di mantenere fede a promesse e aspettative e, nella svolta, portarsi dietro un intero paese.

    L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Zexit: la caduta di Jacob Zuma” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore.

    A cura di Giovanni Carbone, Head, ISPI Africa Programme

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