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    Perché non ci siamo indignati abbastanza per la strage di Orlando

    Il commento di Fiorenza Loiacono sulla strage di Orlando

    Di Fiorenza Loiacono
    Pubblicato il 23 Giu. 2016 alle 15:47 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 02:55

    “Andiamo dunque in avanscoperta, in questo mattino d’estate, quando tutto adora il prugno in fiore e l’ape. E con parole esitanti chiediamo allo stornello […] Cos’è la vita? chiediamo, appoggiati al cancello della fattoria. Vita, Vita, Vita!”

    Queste parole furono dedicate da Virginia Woolf all’amata Vita Sackville-West in Orlando, un’opera iniziata “come uno scherzo” e diventata “la più lunga lettera d’amore mai scritta”, un manifesto di vitalità, di libertà e possibilità esistenziali che si sviluppano quando un essere umano esprime pienamente se stesso. Orlando eleva e conduce lontano, verso la meraviglia dell’esplorazione di sé, dove il maschile e il femminile si confondono, incurante delle catene dei condizionamenti psicologici e sociali.

    Si provi a guardare un’immagine di Christopher ‘Drew’ Leinonen, 32 anni, ritratto insieme al suo ragazzo Juan Ramon Guerrero, 22 anni, entrambi assassinati al Pulse Club di Orlando nelle prime ore del 12 giugno 2016, e si capirà di cosa stiamo parlando attraverso la bellezza, l’amore, la vita che avvolgono questi volti.

    Orlando è dunque anche il nome della città dove una tale spinta vitale è stata annichilita e soffocata da un’altra mortifera, quella esercitata da chi, non riuscendo a vivere per sé, trascina l’umanità circostante in un’implosione che la riduce a niente. 

    Quarantanove esistenze sono state annientate, altre cinquantatré ferite, e tutte sono rapidamente scomparse dal panorama della stampa e del discorso pubblico italiano, dove attualmente si misura l’estensione e la profondità del pregiudizio, dell’incapacità di pensare e di ragionare sulla complessità. 

    Mentre lo sguardo si teneva in superficie, alla ricerca di elementi facilmente inquadrabili in un’idea precostituita del movente (il terrorismo dell’Isis e il fanatismo dei musulmani), è invece progressivamente emersa la molteplicità dei fattori alla base di questa violenza e la pluralità delle sue implicazioni psicologiche, sociali e politiche, analizzabili solo attraverso uno sforzo conoscitivo, empatico e immaginativo. Probabilmente troppo per gli standard dell’attuale discorso pubblico italiano.

    Di fronte a una certezza divenuta improvvisamente incerta (“non è il solito attacco terroristico”), uno squarcio si è aperto lungo un tessuto di comprensione che si voleva piano e lineare. L’attenzione si è rarefatta e la volontà di capire si è mostrata per quel che era sin dall’inizio: illusoria e superficiale, sostituita da una trattazione rigida e automatica dove la considerazione dell’umano è in sostanza inesistente. 

    In pochi giorni la strage di Orlando è scomparsa dalle pagine dei media perché inservibile a sostenere la tesi della pura matrice islamico-radicale, da offrire preconfezionata alla pigra opinione pubblica e utile alle forze politiche di estrema destra per rivolgere la violenza, l’odio e la discriminazione contro altri individui innocenti (l’insieme dei cittadini o dei migranti di fede islamica). È scomparsa perché disturbante nel sollecitare con la sua innegabile evidenza una presa di posizione istituzionale e civile a favore dei diritti lgbt in un paese, l’Italia, dove non esiste il reato di omofobia. Si è dissolta anche perché è mancata un’adeguata capacità di identificazione ed empatia, come dimostra l’inarrestabile profusione di commenti omofobi sui social network. 

    Nessuna riflessione è stata avviata sul disagio della civiltà, sull’omofobia, sulla violenza maschile, sulla sofferenza mentale individuale che può tracimare nel massacro, sulla possibilità che un piano stragista pensato e agito in solitario possa trovare accoglienza e senso in una cornice ideologica estremamente violenta, sulle leggi scellerate che concorrono alla messa in atto del terrore e della morte permettendo ai cittadini di armarsi.

    Non ci si è soffermati sull’attacco alla comunità lgbt, che da decenni lotta per il riconoscimento dei diritti civili e contro la quale si rivolge una parte consistente dei crimini d’odio; sul dolore profondo di questi uomini e donne ogni volta che la violenza si abbatte sul diritto alla libertà di essere se stessi e se stesse e a quello sacrosanto di amare chi si vuole. 

    A proposito di empatia, l’impressione ricavata sin dal primo apparire della notizia è che si riesca piuttosto agevolmente a immaginarsi nei panni di chi muore allo stadio, a teatro, al bar, in aeroporto, ma non in quelli di chi crolla sul pavimento di un locale gay crivellato dai colpi di un fucile d’assalto. L’attenzione si dissolve velocemente, l’indignazione si inibisce e si contrae, retrocedendo di fronte a una situazione che in fondo, si pensa, non potrebbe mai riguardare se stessi. E con questo si dimentica di appartenere alla stessa comunità umana che trasversalmente passa in tutti i luoghi, quale che sia la religione, l’orientamento sessuale, il colore della pelle. Si tralascia, soprattutto, la solidarietà verso un’umanità che muore perché al centro di una violenta e odiosa pratica della discriminazione.

    In Italia la vita degli uomini e delle donne assassinati nel Pulse ha perso velocemente consistenza, risucchiata nel vortice dell’inconsapevolezza, dell’indifferenza, nella voragine dell’assenza di pensiero e del disconoscimento dell’umanità.

    Prima di sapere definitivamente della morte di suo figlio Drew, Christine Leinonen è stata intervistata da una rete televisiva americana. È un’avvocata, ex poliziotta, che fra le lacrime si rivolge alla cittadinanza chiedendo di porre fine a queste stragi, affrontando la questione delle armi, sbarazzandosi dell’odio e della violenza. “Perché il nostro passaggio sulla Terra è così breve” e lo è ancora di più quando qualcuno si arroga il diritto di decidere della vita altrui. 

    Drew, con i suoi bei lineamenti orientali, appena accennati, era stato insignito nel 2002 dell’Anne Frank Humanitarian Award dal Florida Holocaust Museum di St. Petersburg per il suo impegno, per aver introdotto nella scuola superiore che frequentava il lavoro della Gay Straight Alliance, l’Unione Gay Etero, spronando persone di orientamento sessuale differente alla solidarietà e all’attenzione reciproca in un periodo in cui fra gli studenti e le studentesse omosessuali i suicidi erano molto frequenti.

    Un amico lo descrive come “quel genere di persona che incontri una volta sola nella vita e che ti spinge a modificare il tuo modo di pensare, di parlare e di amare, mutando infine la tua esistenza”. Conviveva con Juan in un casa che adesso è vuota. Erano due anime gemelle, “l’amore che avresti voluto vedere intorno a te”. È morto il giorno della nascita di Anne Frank, stroncato come lei dall’odio e dalla ferocia umana in un mondo dove all’amore che finalmente osa dire il proprio nome si risponde ancora con la violenza, il rifiuto, il disprezzo, e la noncuranza, nel momento in cui si ha anche il coraggio di soprassedere sulla fine atroce di un essere umano decisa né più né meno che dall’odio. Basta uno sguardo ai volti di Drew e Juan, alla luce che li avvolge, per sentire una stretta incoercibile, nauseante e opprimente, di offesa e ingiustizia.  

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