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    Speranza turca

    Le proteste di piazza possono dare speranza a chi vuole maggiore libertà. Il racconto di una giovane ragazza turca

    Di Ekin Oklap
    Pubblicato il 11 Giu. 2013 alle 05:44 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:51

    Quando avevo due anni, i miei genitori si trasferirono in Italia per lavoro. Doveva essere solo per qualche anno, il tempo di costruire un’autostrada. L’autostrada finì, ma noi restammo.

    In Italia si viveva e si vive ancora bene: a scuola ti insegnano la storia dell’arte, non ci sono i colpi di Stato, c’è libertà di parola e ci sono i giornali seri. C’è pure il prosciutto, e per mio padre, che il prosciutto non lo mangia, c’è la bresaola. È così che l’Italia è diventata la mia casa.

    Il mio Paese, però, è la Turchia. Ho sempre pensato che un giorno sarei andata a viverci, anche per provare a contribuire in qualche modo a risolvere i nostri mille problemi.

    Ma da qualche anno a questa parte, le cose hanno cominciato a prendere una brutta piega. Dello sviluppo economico, come spesso accade, ha beneficiato solo una parte della popolazione, e inoltre è stato costruito sulla vendita – c’è chi direbbe la svendita – dei beni nazionali al miglior offerente.

    Ma la cosa più inquietante è il modo in cui i numeri della crescita economica sono stati usati per mascherare una serie di mosse a dir poco spiacevoli. Mentre il mondo parlava di come l’Akp di Erdoğan fosse finalmente riuscito a liberare la Turchia dalla morsa di un esercito resosi colpevole di ben tre colpi di Stato, lo stesso Akp sbatteva in prigione non solo quei generali accusati di tramare complotti contro il governo, ma anche un gran numero di giornalisti, che contro il governo non facevano nient’altro che scrivere – persone che, tutto sommato, stavano solo facendo il loro lavoro e il loro dovere.

    Intanto la retorica del nostro premier assumeva toni sempre più sciovinisti, spingendo perché la Turchia assumesse un ruolo di leadership in Medioriente – come se governare un Paese di 70 milioni di persone fosse un gioco, come se contasse di più essere di nuovo importanti e dominanti (come lo si era ai tempi dell’impero Ottomano) che garantire pace, serenità, sicurezza e libertà ai proprio cittadini.

    Ma è chiaro che la libertà sia l’ultimo dei pensieri di questo governo. Basti pensare alla nuova legge sull’alcol che dovrebbe presto entrare in vigore – vietate le pubblicità alle bevande alcooliche, vietata la vendita di alcolici tra le dieci di sera e le sei del mattino. Erdoğan dice che è tutto pensato per proteggere i giovani – ‘e chi vuole bere, beva a casa sua’.

    Chi si oppone dice che è un altro passo verso un tipo di Turchia in cui milioni di turchi non si ritrovano, perché la Turchia è un Paese dove il liquore nazionale, il famoso rakı, è così forte che va tradizionalmente bevuto diluito con l’acqua. Io ho tanti amici che non bevono, chi per motivi religiosi e chi semplicemente perché non gli piace. Sarebbe assurdo costringerli a bere – e credo sia assurdo impedire a chi vuole bere di farlo liberamente.

    Sono stati fatti tanti errori in Turchia nel passato, sono successe cose che hanno insanguinato queste terre, e di cui il mio Paese non riesce ancora a parlare con onestà ed serenità. Per troppi anni, i meccanismi politici della Turchia si sono basati sull’esasperazione delle divisioni, sull’esclusione e la marginalizzazione di ciò che è ‘diverso’.

    Il governo dell’Akp in questo senso è esattamente uguale a tutti quelli che lo hanno preceduto; anche questo governo, come molti di quelli venuti prima, si è dimenticato che vincere un’elezione (o anche vincerne tre) non significa avere carta bianca per ignorare i diritti e il benessere di tutti quelli che hanno votato per qualcun altro.

    Perché in una democrazia, non contano solo i voti delle maggioranze, ma anche e soprattutto i diritti delle minoranze. Ma sotto Erdoğan, quelli che non la pensano come lui sono invitati ad andarsene. Come quel gruppo che protestava contro il progetto del comune per la demolizione del parco Gezi – invitato ad andarsene non con le buone, ma rigorosamente con le cattive.

    È così che negli ultimi anni mi è sembrato che le cose non abbiano fatto altro che peggiorare, e ho iniziato a pensare che forse ritornare in Turchia non fosse poi una così buona idea. Mi sembrava di vedere il Paese trasformarsi in qualcosa che non poteva più essere mio, dove l’ego di un leader arrogante, aggressivo e forse anche un po’ guerrafondaio, cresceva ogni giorno a dismisura, soffocando tutti quelli che nella sua arroganza non vedevano nient’altro che una pericolosa deriva verso la dittatura.

    La Turchia è un Paese che manda in esilio i suoi poeti, fa causa ai suoi scrittori, e mette i suoi giornalisti in prigione; dove fino a pochi anni fa l’università era vietata alle donne con il velo, e dove ora le donne sono invitate a fare ‘almeno tre figli’; dove festeggiare il Primo Maggio è ancora una scelta politica che può risultare pericolosa.

    E dove nel mezzo della più grande mobilitazione popolare che si sia mai vista, i canali televisivi sono cosi invischiati con il potere che hanno preferito trasmettere documentari sui pinguini e programmi di cucina piuttosto che dire la verità su quello che sta succedendo dal 31 maggio a questa parte.

    La Turchia è tutte queste cose, ma quella terribile sensazione di impotenza che mi aveva fatto perdere le speranze per il mio Paese ora non c’è più. Perché da oggi la Turchia è anche un luogo dove migliaia di persone, e non solo a Istanbul, sono in piazza da giorni, uniti a protestare contro un governo che ancora fa finta di non capire che non si tratta solo di un parco, ma anche e soprattutto di libertà.

    Nella Turchia di questi giorni, le tifoserie delle tre squadre principali di Istanbul, e anche quelle di Smirne, divise da un odio profondo e a volte anche mortale (tanto che il derby di Roma a confronto sembra quasi un’amichevole), si difendono a vicenda dai gas lacrimogeni e dai cannoni ad acqua della polizia.

    Nelle piazze ci sono migliaia di donne, chi col velo e chi senza; ci sono bambini e tanti anziani, ma anche giovani studenti, ragazzi e ragazze dei licei e delle università, gente ricca e gente povera, gente che lavora in banca e gente che lavora nelle fabbriche, e anche gente che non lavora proprio perché un lavoro non lo trova, e anche per questo, forse, sente il bisogno di protestare.

    Dopo qualche giorno di relativa calma a Istanbul, stamattina la polizia è tornata ad attaccare i manifestanti a Taksim. Gli scontri nelle altre città – Ankara, Smirne, ed altre ancora – non si sono mai fermati. Nel mio Paese non è mai successo niente del genere prima. Forse non succederà mai più.

    Io non so come andrà a finire – penso che non lo sappia nessuno, in verità – ma so che comunque vada, non mi dimenticherò mai di questi giorni che mi hanno ridato speranza.

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