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    La storia di un sopravvissuto alla ferocia dei talebani: “Così ho visto la morte in faccia”

    "In pochi istanti, le risate si trasformarono in disperate grida di aiuto. Così uccisero i miei più cari amici”: la testimonianza su TPI

    Di Waleed Khan
    Pubblicato il 29 Ago. 2022 alle 08:44 Aggiornato il 29 Ago. 2022 alle 08:53

    Il 16 dicembre 2014 è stato il giorno che ha cambiato completamente la mia vita. È stato il giorno in cui ho perso i miei migliori amici, che erano più che una famiglia per me. È stato il giorno in cui ho perso la mia infanzia. È stato il giorno che mi ha cambiato radicalmente come persona. Ricordo ogni momento di quella giornata. Per tutto il tempo, fino a quando non ho raggiunto la sala operatoria, sono stato estremamente cosciente. Stavamo seguendo una lezione di primo soccorso nell’auditorium, e io mi trovavo sul palco. All’improvviso, i terroristi sono entrati nella sala e hanno iniziato a fare fuoco. Hanno colpito la maggior parte degli studenti che si trovavano nella parte posteriore, inclusi alcuni dei miei amici più cari. Uno degli attentatori ha puntato una pistola contro di me, e mi ha colpito sul viso. Io ho urlato di dolore e sono crollato a terra. Non potevo credere ai miei occhi e ho continuato a pensare che era la fine di tutto. Mi ripetevo una sola domanda: «È un sogno? Sto sognando?». E continuavo a dire a me stesso: «Per favore, svegliati, è un sogno». Ma non lo era. Nella mia testa rivedevo tutti i ricordi che avevo con i miei amici. E mi tornavano in mente tutte le promesse che avevo fatto a mia mamma, su cosa avrei fatto per lei quando sarei cresciuto. Cosa ne sarebbe stato adesso? Sembrava impossibile, come potevo morire così giovane? Mentre questi pensieri mi attraversavano la mente, uno dei terroristi si è accorto di me, e mi ha colpito ancora e ancora, diverse volte sul viso, una volta su una gamba e una sulla mano. Avevo un dolore tremendo, una sofferenza insopportabile, e non riuscivo a smettere di piangere per me stesso, per i miei amici e per il fatto che non fossi in grado di aiutarli.

    Ho provato comunque ad alzarmi, e ad aiutare uno di loro, ma le mie ferite non me l’hanno consentito. Il mio viso era devastato, la mascella era rotta, i denti erano rotti, la mia gamba era ferita ed ero completamente coperto di sangue. L’intero auditorium era schizzato di sangue. Quando i terroristi hanno lasciato l’auditorium, pensando di aver colpito tutti, i sopravvissuti sono corsi fuori tramite l’ala della scuola. Io stavo supplicando che qualcuno mi aiutasse, ma tutti erano così traumatizzati che stavano correndo per salvare se stessi. Solo pochi minuti prima, stavano tutti ridendo e scherzando. Ricordo ancora che il medico che era venuto a tenere il corso disse che ci avrebbe insegnato “l’Abc del primo soccorso”, che era diverso dal solito Abc. Ci diede le varie definizioni, e poi chiese: «Per cosa sta la A?». E uno dei miei amici, che era il bambino più impertinente della scuola, disse: «Sta per mela (Apple in inglese, ndt)». E tutti scoppiarono a ridere.

    Questo succedeva pochi minuti prima che fossero martirizzati. Nel giro di qualche minuto, le risate si trasformarono in grida di aiuto. Nessuno poteva credere a ciò che era appena accaduto. Come dicevo, quando ero a terra e non c’era nessuno che mi potesse aiutare, per cinque minuti ho detto a me stesso che sarei morto. E accettare di morire è la cosa più difficile da fare nella vita. Pensavo a mia madre, alla mia famiglia e ai miei amici. Pregavo Allah che mi facesse vedere mia madre per un’ultima volta, prima che chiudessi gli occhi. Volevo solo abbracciarla. E poi, all’improvviso, mi dissi: «Non mi arrenderò così facilmente». Quindi provai ad alzarmi, cercando di non pensare alla ferita sulla gamba.

    Strisciando verso la salvezza

    Il dolore al viso era talmente forte, che tutto il resto in confronto era niente. Non potevo nemmeno toccarmi il volto, perché le mie mani sarebbero entrate dentro la mia faccia. Ma provai a mettermi in piedi con l’aiuto di qualche sedia, e quando ci riuscii mi sorpresi di me stesso. Feci un primo passo, ma non avevo realizzato che ero stato colpito a una gamba, così caddi di nuovo per terra. Provai ancora e ancora ad alzarmi, ma poi mi arresi e iniziai a strisciare. In qualche modo, non so ancora come, riuscii a uscire dall’auditorium.

    Ma quando fui fuori da lì, non era ancora finita. Avevo ancora una lunga strada da fare. Dovevo percorrere all’incirca 10 o 20 metri, e in quel momento sembravano un chilometro. Nel percorso verso l’ala della scuola, c’erano alcune rampe di scale. Provai a tenermi alla ringhiera, per trascinarmi sopra le scale, ma caddi ripetutamente. Ricordo ancora che, steso di fronte alla biblioteca, guardavo gli alberi fuori dalla scuola, mentre erano ancora in corso sparatorie ed esplosioni nell’edificio. Gli uccelli volavano via da quegli alberi, e io ero steso sul lato sinistro pensando che avrei voluto essere uno di loro. Non so cosa mi diede la forza in quel momento, ma non mi arresi.

    Di solito ero così sensibile che avrei potuto essere considerato un bambino timido a scuola, ma in quel momento sentivo che ce l’avrei fatta. Ancora una volta, mi alzai aggrappandomi a dei pilastri, e iniziai a camminare. Ogni volta che cadevo, continuavo a strisciare. Tutti gli studenti dell’Army Public School (Aps) che erano dietro di me, correvano e mi calpestavano. Nessuno si accorgeva che ero vivo e steso sul pavimento, perché erano tutti nel panico. Per questo ho riportato delle brutte ferite alle mani e una frattura al polso destro. Fui lasciato di nuovo da solo, ma per fortuna c’era un’aula del settimo anno lì vicino, e io provai a strisciare in quella direzione. E in qualche modo ci riuscii. Quando raggiunsi l’aula, avevo perso ogni energia. Non riuscivo più nemmeno a muovere le dita. Sentivo che stavo per perdere conoscenza, quindi mi sdraiai davanti alla porta. Ma – ed è la cosa per cui ringrazio veramente Dio ogni volta – i miei sensi stavano ancora lavorando, e grazie a questo usavo la mia mente per fare il meglio che potessi. I miei occhi si stavano facendo pesanti, e solo in quel momento realizzai che ero stato colpito alla gamba, perché iniziò a farmi male. E quando la guardai vidi che c’era un grosso foro. In quell’istante capii che se fossi svenuto, chiunque fosse venuto a soccorrerci avrebbe pensato che fossi morto. Ero già mezzo morto. Quindi, per evitare di perdere i sensi, iniziai a colpirmi sulla gamba ferita, il che provocò altro dolore. Ma mi aiutò a restare cosciente. Continuai a farlo. Dopo quelli che credo furono 10 o 15 minuti, l’esercito pakistano entrò e soccorse tutti gli studenti dell’Aps che erano nell’ala studentesca. A quel punto mi portarono al Combined Military Hospital (Cmh). Avevo perso così tanto sangue che non riuscivo più a muovere le dita. Mi sentivo paralizzato. I medici pensavano fossi morto. Era una situazione di emergenza. Stavano arrivando altri feriti, e loro stavano prendendo decisioni rapide e provando ad aiutare più studenti possibili. Mi misero insieme ad alcuni cadaveri.

    Io tentavo di dire loro che ero ancora cosciente e potevo sentirli parlare, ma non riuscivo a muovermi. Allora iniziai a respirare pesantemente, prendendo lunghi respiri, e questo fece uscire delle bolle di sangue dalla mia bocca. Per fortuna, una delle infermiere mi vide e avvisò i medici, che finalmente si accorsero che ero vivo, e mi portarono di corsa in sala operatoria. Non ho alcun ricordo dei successivi 8 giorni, perché ero in coma. I medici dissero alla mia famiglia di non crearsi delle false speranze. Le mie possibilità di sopravvivenza erano di circa l’un per cento. I medici dissero inoltre ai miei familiari di non avere nessuna alta aspettativa. I miei si stavano preparando alle cattive notizie, e mia madre era l’unica persona a non accettarlo. Per giorni è stata priva di conoscenza, perché i medici le hanno dato dei sonniferi per sedarla, dal momento che non riusciva a vedermi in quelle condizioni.

    All’ottavo giorno, quando aprii gli occhi, vidi mia madre seduta di fronte a me. Volevo abbracciarla, ma non riuscivo a causa dei tubi e delle fasciature. Non riuscivo a parlare, così usai le mani per fare dei gesti. All’inizio, quando mia madre se ne accorse, provò a sviarmi dicendo che avevo avuto un incidente con la bicicletta, che aveva procurato tutte le ferite, ma io scossi la testa e feci il gesto di una pistola con la mano, per dirle che mi ricordavo di essere stato colpito. Mia madre disse: «Si ricorda». Quando i miei familiari mi videro per la prima volta, non mi riconobbero a causa delle mie condizioni. Mio padre mi riconobbe dalla maglietta. Per molti giorni, altri membri della famiglia non credettero che fossi veramente io. Così, quando mi svegliai, mi chiamarono col mio soprannome, “Huraira”, e io annuii, e in questo modo furono certi che si trattasse davvero di me.

    * Traduzione di Anna Ditta.

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