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    Sentirsi soli a vent’anni

    La solitudine è una qualità, un lusso che dobbiamo imparare ad amare. Non avere nessuno a cui fare domande è il modo per capire che cosa volete davvero

    Di Nell Frizzel
    Pubblicato il 21 Apr. 2015 alle 14:32 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:36

    La solitudine può
    insinuarsi fin dentro le ossa come una malattia, inondarvi inaspettatamente
    come il vomito di uno sconosciuto, o adagiarsi nella fossa dello stomaco per
    settimane come un chewing gum non digerito. Specialmente, a quanto pare, se siete
    giovani.

    Un sondaggio
    condotto da Opinium per The Big Lunch ritiene che l’83 per cento delle persone dai 18 ai 34 anni abbia sperimentato il dolore lieve e silenzioso di sentirsi
    solo, e questo non mi sorprende.

    Certo, è semplice
    sentirsi soli quando si ha vent’anni. Magari ve ne state seduti in un ufficio
    di cinquanta persone, ma se vi scambiate email con i colleghi, anziché scambiarvi pettegolezzi davanti a una tazza di tè nella cucina in comune, allora è dura sentirsi davvero parte di un gruppo.

    Quando
    mangiate il pranzo seduti alla vostra scrivania, scorrendo svogliatamente le
    foto delle altre persone su Facebook anziché fare due 
    chiacchiere attorno al
    tavolo sul recente tentativo di cucina messicana alla mensa, esponete voi
    stessi al gelido spiffero della solitudine.

    Se vi sedete sul divano con il
    vostro coinquilino scorrendo silenziosamente i tweet di tutti su una festa alla quale non siete
    andati, potreste cominciare a sentirvi socialmente estraniati. È così
    sorprendente che il 28 per cento delle persone al di sotto dei 35 anni desideri avere
    più amici?

    Il nostro costante stato di remota interazione sociale è un’arma a doppio taglio contro la solitudine; siamo
    consapevoli di tutte le persone che si stanno divertendo più di noi, mentre siamo inconcludenti
    nel fare programmi. Organizzare una
    bevuta tra amici spesso significa poco più di uno scambio di sms di scuse per via del ritardo.

    Sei libero martedì? Forse – ti faccio sapere lunedì. Vuoi fare
    qualcosa questa sera? Magari – fammi capire se riesco a liberarmi da questo impegno
    di lavoro. Stai arrivando? Scusa, sono rimasta bloccata in una riunione, forse
    potremmo vederci 
    più tardi?

    C’è più solitudine nel restare sospesi in questo limbo sociale che nell’affrontare la dura realtà delle pagine bianche di un diario. Molte persone al di sotto dei
    35 anni non hanno imparato la nobile a
    rte del restare soli.

    Così come quei viaggi in macchina di quattro ore per andare a visitare vostra nonna,
    nei quali non avevate altro che un paio di elastici, una matita e la nausea del
    viaggio, vi hanno insegnato ad affrontare la noia,
     anche le nostre vite prima dell’era degli smartphone ci hanno un tempo insegnato come affrontare la solitudine.

    Ricordo quando
    passeggiavo per la città di Leeds durante la mia prima settimana di università
    completamente da solo, perso, mentre cercavo un punto vendita della catena britannica 
    Argos. Si trattava di un potenziale momento di solitudine, eppure anziché ricorrere a Google maps,
    entrai in un panificio per chiedere informazioni.

    Finii per passare quei minuti a
    parlare di coperte elettriche con una donna con la faccia dalla consistenza di
    un morbido panino. Fu meraviglioso. E, anche se si tratta solo di dieci anni
    fa, questa scena sembra presa da
     un passaggio di un libro di Thomas Hardy, specialmente
    per un moderno ventunenne con uno
    smartphone incorporato nel palmo della mano.

    Il problema, certamente,
    non è la solitudine di per sé, ma come pensiamo di essere soli. Ne abbiamo paura,
    proviamo pietà, facciamo ogni cosa che sia in nostro potere per evitare la solitudine.

    Eppure, nella moderna foga dei social media, smartphone e città
    sovraffollate, la solitudine può essere un lusso. L’isolamento, il silenzio, la
    brama di essere in mezzo alla gente e la riflessione personale forzata sono
    tutte cose incredibilmente utili, specialmente se volete ottenere qualcosa di
    creativo.

    Stare soli è il modo tramite il quale si impara a dare valore alla compagnia. Il silenzio è ciò che
    dà valore a una conversazione. Non avere nessuno a cui fare domande è il modo per
    capire che cosa volete davvero. Forse non sembrerà sempre così, ma la
    solitudine può essere davvero produttiva.

    Stare soli è
    un’abilità, che richiede pratica, e non impararla potrebbe essere fatale: una
    ricerca pubblicata dalla Brigham Young University il mese scorso ha dimostrato
    che la solitudine può aumentare il rischio di morte prematura fino al 30 per cento. 
    Quindi dovete essere preparati a parlare con estranei e fare programmi che non
    dipendano dagli altri.

    E siete soli, nonostante
    quello che vi propini il vostro newsfeed quotidiano su Facebook. Come disse una volta Orson Welles,
    quel cittadino del mondo 
    solitario con la fossetta sul mento: “Siamo nati soli,
    viviamo soli, moriamo soli. Solo attraverso il nostro amore e l’amicizia
    possiamo creare, per un momento, l’illusione di non essere da soli”.

    Potete combattere
    la solitudine, imparare ad amare l’isolamento, fare uso dello sconforto nei
    momenti in cui siete soli e arrivare a capire che qualche volta le migliori
    canzoni sono proprio gli assoli.

    E mentre mangiate il vostro panino in un parco deserto o
    sedete a casa ascoltando il lavandino che perde, ricordate questo: non siete
    soli a sentirvi soli.

    L’articolo originale di Nell Frizzel è stato pubblicato sul Guardian. Traduzione a cura di Fernanda Pesce Blazquez  

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