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    La difficile sfida della Serbia tra Europa e Balcani

    Il primo ministro uscente ha vinto le nuove elezioni ma la destra ultra-nazionalista avanza. L'analisi di Francesk Fusha

    Di TPI
    Pubblicato il 3 Mag. 2016 alle 16:46 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:40

    Domenica 24 aprile 2016 in Serbia si sono tenute le nuove elezioni parlamentari, le settime dalla caduta del regime di Milosevič (2000), che, in linea con le previsioni degli exit poll, hanno confermato la vittoria del Partito progressista serbo (Snc) del primo ministro uscente Aleksandar Vučić. Sfruttando il consenso attuale nel suo partito, nel gennaio scorso, Vučić aveva deciso per puro “calcolo” politico di indire le elezioni anticipate a due anni dalla scadenza naturale della legislatura. La motivazione principale che ha spinto il premier a tornare di nuovo alle urne era legata al tempismo: per completare le riforme e rafforzare la stabilità del paese gli sarebbe servito un mandato quadriennale.

    Il successo elettorale ottenuto dai progressisti (Snc), con il quasi 50 per cento dei consensi, dimostra che la linea politica dell’integrazione europea ha avuto il successo previsto. I socialisti (Sps), con a capo il ministro degli Esteri uscente Ivica Dačić, hanno ottenuto il 12 per cento, confermandosi seconda forza politica del paese.

    La novità di questa tornata elettorale è legata all’avanzamento degli ultra-nazionalisti di destra. Il leader del Partito radicale serbo (Srs) Vojislav Šešelj, da poco assolto dalle accuse di crimini di guerra al Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja, tornerà di nuovo in parlamento dopo aver superato di quasi 4 punti la clausola di sbarramento del 5 per cento.

    In questo nuovo mandato il governo serbo si troverà ad affrontare importanti sfide politiche ed economiche. A cominciare dall’implementazione delle riforme istituzionali ed economiche, avviate nel dicembre del 2014 con l’apertura dei negoziati di adesione all’Ue, necessarie per spianare a Belgrado la strada verso una piena integrazione europea.

    Recentemente la Commissione europea ha raccomandato l’apertura dei capitoli negoziali 23 e 24 entro giugno 2016. Tali capitoli sono tra i più importanti e riguardano temi come giustizia, diritti fondamentali, libertà e sicurezza.

    I nuovi rapporti con Bruxelles hanno ridefinito anche il ruolo geopolitico della Serbia all’interno dei Balcani, contribuendo ad assegnarle un’importanza strategica nelle dinamiche regionali tra l’Occidente e la Russia. Contemporaneamente ciò conferisce al paese una posizione delicata e richiede uno sforzo continuo nel dover difendere al meglio gli interessi nazionali conciliando le due realtà.

    Da una parte, Belgrado deve far fronte alle pressioni dell’Unione europea che ha stanziato circa 1,5 miliardi di euro in aiuti finanziari per il periodo 2014-2020; dall’altra deve curare con cautela le relazioni con la Russia dalla quale non ha mai voluto e potuto staccarsi completamente, non soltanto per i legami etno-culturali, ma anche per ragioni economiche (tra i due paesi vige un accordo di libero scambio) ed energetiche in quanto dipende considerevolmente dall’import del gas naturale russo.

    Inoltre, la Russia rimane un alleato politico fondamentale per la Serbia: il Cremlino non ha mai mostrato segnali di apertura nei confronti del riconoscimento del Kosovo, nonostante nella retorica di legittimazione per l’annessione della Crimea Putin abbia fatto riferimento al caso kosovaro mettendo così Belgrado in una posizione molto scomoda. Questo ha contribuito a creare un piccolo “incidente diplomatico”, poi rientrato dopo i chiarimenti tra il governo russo e l’ambasciatore serbo a Mosca.

    Un altro elemento che contribuisce a rendere ancora più delicata la posizione politica della Serbia nel contesto regionale è proprio il fattore Kosovo. Continuano i negoziati con Priština sotto l’egida dell’Unione europea e nonostante l’Accordo di Bruxelles (siglato ormai due anni fa), che prevede una piattaforma condivisa tra le due entità per la gestione delle autonomie dell’etnia serba in Kosovo, la situazione rimane tuttora critica, in particolare nel distretto kosovaro di Mitrovica, dove la comunità serba rappresenta la maggioranza della popolazione.

    L’Ue non chiede formalmente alla Serbia di riconoscere la sovranità kosovara, ma ciò su cui preme è il fatto che i due paesi raggiungano una piena collaborazione perché gli accordi bilaterali su giustizia e sicurezza siano attuati in modo da frenare eventuali episodi di violenza.

    Non meno spinosi sono i rapporti con la Bosnia ed Erzegovina, dove Belgrado ha giocato e continua a svolgere un ruolo importante per la stabilizzazione della situazione, previsto dagli accordi di Dayton che segnarono la fine del conflitto bosniaco nel 1995.

    Se le relazioni con il governo centrale di Sarajevo e la Federazione di Bosnia-Erzegovina rimangono altalenanti, i rapporti tra la Serbia e la Repubblica Srpska, l’altro soggetto giuridico che compone lo stato bosniaco, popolato per la maggior parte da persone di etnia serba, rimangono ottimi.

    Tuttavia, le diverse spinte secessioniste verificatesi negli ultimi anni nella Repubblica Srpska hanno ulteriormente complicato la situazione politica bosniaca e contemporaneamente hanno dimostrato una forte fragilità delle istituzioni e dell’entità statale bosniaca.

    Altrettanto difficili, a causa della loro impetuosa storia, rimangono i rapporti tra Croazia e Serbia. Dopo essersi reciprocamente accusate davanti alla Corte internazionale di giustizia per genocidio e crimini contro l’umanità durante la guerra degli anni Novanta, la Croazia da parte sua (già membro dell’Ue) minaccia ora di bloccare l’adesione di Belgrado qualora quest’ultima non dimostri totale collaborazione con il Tpi dell’Aja per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia.

    Se le relazioni con la Macedonia hanno perso di rilevanza negli anni – sebbene Belgrado sia preoccupata dall’attuale instabilità politica del paese che rischia di destabilizzare l’intera regione – invece quelle con l’Albania continuano a essere complesse.

    Nonostante Belgrado e Tirana abbiano dimostrato un’apertura con la visita del premier albanese Rama dopo 68 anni di completa interruzione di qualunque rapporto, la situazione rimane comunque molto complessa tra i due paesi per via di interessi nazionali contrastanti: la sovranità kosovara in primis e il contenimento delle spinte nazionalistiche riguardanti la “Grande Albania”.

    Nei Balcani la retorica dei nazionalismi è sempre stata strumentalizzata dalla politica al fine di accrescere i consensi elettorali, senza la minima preoccupazione delle conseguenze che questa “mossa vincente” avrebbe provocato nelle generazioni passate e presenti.

    La situazione della Serbia si dimostra dunque complicata sotto molti aspetti sia interni sia esterni. Un ruolo sicuramente importante sarà giocato dal fronte ultra-nazionalista e filo-russo di destra e dalla sua capacità di influenzare il lavoro degli europeisti di Vučić e della nuova coalizione di governo.

    Anche alla luce di ciò, il paese molto probabilmente continuerà a rimanere, come lo è sempre stato, diviso tra l’appeal europeo e l’influenza storica esercitata dal Cremlino, paralizzando così un’altra volta ogni possibilità concreta di reale cambiamento.

    — L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Europa e riformismo: le ‘nuove’ sfide della Serbia di Vučić” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore 

    * Francesk Fusha, ISPI ricercatore tirocinante

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
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