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    Quando le fake news su Facebook e Twitter aiutarono Putin a impossessarsi della Crimea

    Di Luca Serafini
    Pubblicato il 16 Feb. 2022 alle 14:59

    L’attuale crisi tra Russia e Ucraina, pur affondando le radici in questioni storiche e geopolitiche di ben più lunga data, ha avuto come punto d’innesco recente la rivoluzione ucraina del 2014 (con la deposizione del presidente filo-russo Viktor Janukovyč), e la successiva annessione della Crimea da parte della Russia.

    Proprio la vicenda della Crimea può essere utile per comprendere in che senso questo conflitto, negli ultimi anni, è stato condizionato e alimentato dalla propaganda portata avanti sulle piattaforme digitali. Anche i social network, detto in parole povere, hanno avuto un ruolo non secondario nello scontro tra Russa e Ucraina, diventando uno strumento utilizzato soprattutto dal Cremlino per diffondere una disinformazione mirata.

    Perché, tra le varie vicende che hanno costellato il conflitto dal 2014 in poi, quella della Crimea è particolarmente illuminante in relazione alle campagne di disinformazione online? Una risposta ce la fornisce il libro del professore del Massachusetts Institute of Technology (MIT) Sinan Aral, dal titolo “Hype Machine. Come i social media sconvolgono le elezioni, l’economia e la salute, e come dobbiamo adattarci”, la cui edizione italiana è uscita nel 2021 per Edizioni Guerini.

    Aral stesso, come spiega nel suo libro, tra il 2007 e il 2016 ha effettuato con altri ricercatori uno studio decennale sulla diffusione di fake news su Twitter. Tra i vari risultati della ricerca, ce n’è uno particolarmente significativo: il maggior picco nella diffusione di notizie false su Twitter veniva registrato tra i mesi di febbraio e marzo 2014, in coincidenza con l’annessione della Crimea da parte della Russia. E si trattava, nella maggior parte dei casi, proprio di fake news diffuse dalla propaganda russa per cambiare la percezione dell’opinione pubblica su quanto stava avvenendo in Crimea.

    Perché ciò avveniva? In quel momento era in atto uno scontro di “interpretazioni” sull’intervento russo nella regione: Putin sosteneva si trattasse di una spontanea adesione alla Russia da parte dei cittadini della Crimea, e non di un’annessione militare. È evidente che per sostenere questa tesi, era necessario creare la rappresentazione di una popolazione tutta schierata dalla parte del Cremlino.

    Al fine di fornire questo tipo di rappresentazione, sono stati quindi mobilitati i principali strumenti della propaganda russa sulle piattaforme digitali. Si è mossa anche l’Internet Research Agency (IRA), l’azienda russa specializzata nella propaganda online e successivamente accusata dagli Usa di aver condizionato le elezioni presidenziali del 2016. Ma quali erano le fake news messe in circolo per far sembrare l’annessione della Crimea un moto di adesione spontanea della popolazione? E inoltre, come veniva condotta la campagna di disinformazione?

    In primo luogo, come spiega Aral nel suo libro, la strategia della Russia era quella di silenziare tutte le voci favorevoli all’Ucraina negli ambienti online. Per raggiungere tale scopo, venivano mobilitati eserciti di bot che segnalavano alle piattaforme (Facebook in particolare) i post di blogger o attivisti ucraini. Nelle segnalazioni risultava che i post contenevano abusi, in alcuni casi addirittura materiale pornografico, e che in generale si trattava di contenuti che violavano le regole del social network. Erano ovviamente accuse false, ma l’incapacità di Facebook di effettuare controlli accurati ha portato all’effettiva rimozione di molti di questi post, per il solo fatto che ricevevano una quantità enorme di segnalazioni.

    Non a caso, durante un evento pubblico tenutosi il 14 maggio 2014 nel quartier generale di Facebook, e che prevedeva la possibilità di inviare domande da parte degli utenti, uno di questi pregò Zuckerberg di fare qualcosa per fermare i blocchi ingiustificati degli account di blogger e attivisti favorevoli all’Ucraina. Una richiesta a cui Zuckerberg diede lì per lì una risposta di circostanza, senza poi mai attivarsi realmente per risolvere il problema.

    Può sembrare una questione marginale, ma quanto avvenuto sui social, e su Facebook in particolare, ha contribuito in maniera significativa a modificare la percezione dell’opinione pubblica su quanto stava accadendo in Crimea, per il semplice fatto che una delle parti in causa veniva sistematicamente silenziata attraverso il blocco degli account.

    Ma non è tutto. Una seconda strategia della Russia consisteva, molto semplicemente, nell’inondare le piattaforme social di notizie false sul conflitto in corso, alimentandole poi attraverso le reti di bot in modo che potessero diventare virali. Uno dei temi più spinosi, nel 2014 come oggi, era quello della presunta discriminazione linguistica delle autorità ucraine, che secondo il Cremlino volevano bandire l’uso del russo anche in regioni, come la Crimea, in cui quasi l’80 per cento della popolazione è di madrelingua russa. Tra le fake news diventate più virali su Twitter nello studio di Aral da cui siamo partiti, ce n’era proprio una secondo cui il governo dell’Ucraina stava introducendo una legge che aboliva l’utilizzo di lingue diverse dall’ucraino in circostanze ufficiali.

    L’altro obiettivo della propaganda russa, attraverso la diffusione di fake news, era quello di rappresentare il fronte filo-ucraino come se fosse composto da nazionalisti antisemiti. A questo fine, era quindi necessario mettere in circolo notizie secondo cui erano in corso violenze contro gli ebrei. Ed è qui che si verificò un fatto emblematico. Come spiega Aral nel suo libro, infatti: “Quando, il 2 maggio 2014, sono scoppiati a Odessa violenti scontri fra separatisti filorussi e sostenitori di un’Ucraina indipendente, ha avuto ampia diffusione su Facebook una storia diffusa da un medico del posto, un certo Igor Rozovskiy. Il dottor Rozovskiy ha sostenuto, in un post lungo e dettagliato, che i nazionalisti ucraini gli avevano impedito di soccorrere un uomo ferito durante uno scontro. Ha affermato che lo avevano trascinato via con forza, mentre «si auguravano che gli ebrei di Odessa facessero la stessa fine»6 . Rozovskiy aggiungeva che «niente del genere era mai accaduto nella mia città, neanche ai tempi dell’occupazione nazista». Il post è diventato virale su Facebook e ne sono presto apparse traduzioni in inglese, tedesco e bulgaro”.

    Il problema è che il dottor Rozovskiy non era un utente reale. Si trattava infatti di un profilo fake creato il giorno prima della pubblicazione del post in questione. La propaganda russa si era servita di questo profilo per diffondere timori di repressioni antisemite da parte del fronte filo-ucraino, riuscendo anche a rendere virale quel post.

    Il conflitto tra Russia e Ucraina, insomma, è stato condotto anche con le armi della propaganda online, ambito in cui la Russia si è del resto dimostrata “maestra” anche in numerosi altri casi, come le già citate elezioni americane del 2016. E come in numerosi altri casi, anche in questo Facebook e i colossi del web non hanno fatto quasi nulla per fermare l’utilizzo fraudolento delle loro piattaforme a fini politici.

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