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    Io, reporter di guerra, vi dico cosa significa convivere con il disturbo post-traumatico da stress

    La sindrome viene solitamente associata ai soldati impegnati sul campo di battaglia. Ma esiste anche una minoranza ristretta di giornalisti che corrono questo rischio

    Di TPI
    Pubblicato il 16 Nov. 2016 alle 13:36 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 02:23

    Il rumore degli elicotteri da combattimento che si fanno sempre più vicini e minacciosi. Le bombe che esplodono a poca distanza e rimbombano nelle orecchie. I cadaveri di uomini, donne e bambini riversi sulla terra polverosa. Sono queste, e tante altre, le esperienze raccontate quotidianamente dai numerosi reporter impegnati in prima persona sul fronte di guerra, in qualche parte del mondo.

    Forse pochi sanno che anche questi intrepidi giornalisti con indosso un giubbotto antiproiettile, un casco di protezione e una scritta Press ben visibile, possono correre il rischio di essere colpiti da quella sindrome che spesso e volentieri viene associata ai soldati impegnati sul terreno di battaglia sottoposti a forti stress: ossia il disturbo post-traumatico da stress  (PTSD). 

    Di seguito riportiamo il lungo racconto di un reporter dell’agenzia di stampa Reuters, Dean Yates, che ha combattuto per diversi anni con questo mostro invisibile.

    Dopo anni di guerre e dirette dal campo per coprire la tragedia in Medio Oriente e nel sudest asiatico per la Reuters, questo disturbo ha catturato anche me. Quando lo psichiatra lo ha diagnosticato era l’inizio di marzo. Lì per lì non volevo accettarlo, ma ho dovuto. I continui flashback, l’ansia, il torpore emotivo e la mancanza continua di sonno avevano avuto ripercussioni non solo sul fisico, ma anche sull’equilibrio familiare, destando profonda preoccupazione tra i miei familiari più stretti. Ma io continuavo a negare di avere un serio problema. Cinque mesi più tardi sono stato ricoverato in un reparto psichiatrico”

    Inizia così la confessione del giornalista. Una lucida descrizione del suo percorso di discesa negli abissi più profondi dell’animo umano, segnato da squilibri mentali oltre che fisici e da sentimenti come rabbia e ira sempre più pericolosi per sé e per le persone che lo hanno circondato. 

    La lunga e soddisfacente carriera in Reuters

    Per l’agenzia internazionale ho coperto come giornalista alcune delle grandi storie dell’epoca contemporanea: dall’attentato terroristico in una discoteca di Bali nel 2002 allo tsunami del 26 gennaio del 2004 che sconvolse l’Indonesia.  Poi, sono stato inviato in Iraq dal 2003 al 2004, e infine sono stato nominato capo dell’ufficio a Baghdad dal 2007 al 2008. Dal 2010 al 2012, invece, sono stato assegnato alla sede di Singapore, dove ho coperto tutte le notizie principali provenienti quotidianamente dall’Asia”, ha raccontato Yates sul sito dell’agenzia.

    Dopo 20 anni di onorato servizio in Asia e Medio Oriente, per Dean era arrivato il momento di tornare a vivere una vita più regolare. Nel 2013 decise di trasferirsi insieme alla sua famiglia in un piccolo villaggio della Tasmania, Evandale, in Australia. Mille abitanti in tutto.

    Qui trascorrevo le mie giornate a scrivere storie sempre per Reuters, ma lo facevo da casa. L’intento era quello di riacquistare la normalità, di riuscire a stare nello stesso posto per lunghi periodi, di ristabilire una vita regolare. Ma è stato proprio lì che mi sono accorto di avere dei seri problemi, che mi trascinavo dietro da lungo tempo. Ad accorgersi di tutto ciò fu mia moglie Mary, anche lei ex giornalista”.

    “Un giorno prese un foglio bianco e scrisse una lettera nella quale elencava tutte le sue preoccupazioni. La inviò a uno psichiatra. La lettera iniziava così: ‘Quando siamo tornati a casa in Tasmania, tre anni fa, ho notato un notevole cambiamento in Dean. Ora poteva trascorrere molto più tempo con la sua famiglia, ma nel contempo aumentavano i problemi. Era ultrasensibile ai rumori, aveva un temperamento più irruento, era irritabile, impaziente e la sua presenza in casa gettava scompiglio in famiglia. Da tutto ciò, mi sono convinta che mio marito fosse affetto da disturbo post-traumatico da stress. Ma non avrebbe mai ammesso che dentro di lui nel più profondo della sua mente e del suo animo erano impresse immagini che non avrebbe mai potuto cancellare“. 

    Erano decine le immagini che tormentavano Dean. I suoni e certi odori risvegliavano in lui certi pensieri e riportavano alla mente alcuni momenti precisi vissuti sul campo, quando era un reporter. La prima che gli venne in mente fu la mano mozzata di una persona che calpestò a Bali, quando oltrepassò la soglia della discoteca squarciata dall’esplosione. Oppure, furono le centinaia di corpi in avanzato stato di decomposizione ammassati dentro una moschea a Banda Aceh, in Indonesia, che ha dovuto contare. 

    Più di tutti, a turbare Dean fu la morte di un collega e del suo autista uccisi nel luglio del 2007 in Iraq, quando lui venne nominato capo dell’ufficio Reuters a Baghdad. 

    “Ricordo molto bene quel giorno. Ero nel mio ufficio quella mattina del 12 luglio quando fui colpito in pieno dalla notizia che il nostro fotografo iracheno, Namir Noor-Eldeen, 22 anni, e il suo autista Saeed Chmagh, 40 anni, erano stati uccisi in un attacco da parte di un elicottero americano Apache“.

    Immagini che tornarono alla memoria, quando qualche anno più tardi, nel 2010, Dean rivide un video pubblicato da Wikileaks, in cui si vedevano chiaramente le due vittime camminare per la strada prima di essere coinvolti nell’attacco. 

    (Qui sotto in ordine, l’attacco a Bali nel 2002, i funerali del fotografo Namir Noor-Eldeen e lo tsunami in Indonesia del 2006. Credit: Reuters)

    Che cosa è il disturbo post-traumatico da stress?

    Quando si parla di disturbo post-traumatico da stress vengono subito in mente i soldati impegnati a combattere sul campo di battaglia, esposti alle violenze quotidiane, ai cadaveri mutilati, ai compagni uccisi in azione.

    La sindrome si verifica davanti all’esposizione continua a uno o più eventi traumatici. Il termine è relativamente nuovo: la sua prima apparizione nella psichiatria moderna viene registrata in un manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali pubblicato negli Stati Uniti nel 1980. 

    Si iniziò a parlare di questi disturbi dopo la fine della guerra in Vietnam.

    La sindrome non coinvolge solo i soldati, ma sono diversi i soggetti a rischio: agenti di polizia e soccorritori, ma anche civili catturati in zone di guerra o colpiti da calamità naturali, così come le vittime di aggressioni sessuali.

    La maggior parte dei giornalisti sembrano resistere a questi sintomi, nonostante l’esposizione ripetuta a eventi traumatici e drammatici dovuta al loro lavoro, almeno secondo una ricerca condotta dal Dart Center for Journalism and Trauma, un progetto della Scuola di giornalismo della Columbia University di New York. Ma una minoranza significativa è più esposta e corre più rischi di mostrare problemi psicologici a lungo termine, tra cui il PTSD, la depressione o l’abuso di sostanze. 

    – La discesa verso gli inferi e il ricovero in un ospedale psichiatrico 

    Non ho mai pensato di poter soffrire di questa sindrome. Ero tranquillo, razionale e decisivo in ogni situazione davanti alla quale mi trovavo. Mi piaceva essere a capo di una grande squadra editoriale. Ero convinto di potermi allontanare temporaneamente da situazioni difficili quando lo ritenevo necessario“. 

    Questa convinzione si scontrava con la realtà. Per quasi un anno, Dean non riusciva a scendere dal letto, e quando lo faceva, trascorreva gran parte del suo tempo alla scrivania, nel suo studio, nel tentativo di lavorare, ma a malapena riusciva a sollevare la testa e scrivere. 

    “Quando mi sentivo stressato, allora avevo la sensazione di essere catapultato nel passato. Mi trovavo di nuovo nel mio ufficio a Baghdad, ed era come se non lo avessi mai lasciato. Mi sentivo come intrappolato, e volevo battere i pugni sulla scrivania e urlare contro le pareti. Ero diventato ultrasensibile ai rumori. Ad esempio, quando a uno dei miei figli capitava di far cascare qualcosa per terra sobbalzavo per la paura. In diverse occasioni, mia moglie dopo aver letto informazioni sulla sindrome e aver parlato con un esperto, mi aveva esortato a chiedere aiuto”. 

    Nel 2015, Dean decise di affrontare il problema con una seduta dallo psicologo, ma la diagnosi fu ben diversa rispetto a quella che si aspettava. Non era affetto da disturbo post-traumatico da stress, ma soffriva semplicemente di una crisi d’identità legata al fatto di non avere più un lavoro di alto profilo, al cambiamento radicale di stile di vita. Per amore si era trasferito in una zona di campagna dove nessuno lo conosceva, e viceversa. 

    Mesi dopo quell’incontro, i disturbi si acuirono: l’irritabilità, il senso di intorpidimento emotivo e soprattutto gli scatti ingiustificati di rabbia avevano raggiunto una fase allarmante. Effetti che a lungo andare avrebbero distrutto il suo fisico, la sua mente, ma che avrebbero messo a repentaglio anche la sua tranquillità familiare. 

    “Lì ho deciso di chiedere l’aiuto di uno specialista e mi sono rivolto a uno psichiatra che mi ha diagnosticato il PTSD. Senza esitare, i miei editori mi hanno concesso tre mesi di pausa. Ho iniziato a prendere antidepressivi. Nelle settimane successive, mi sentivo spesso affaticato. Ai primi di maggio ho deciso di posticipare di qualche mese il mio rientro a lavoro e ho iniziato a seguire un corso sulla meditazione sperando mi aiutasse a combattere l’ansia e lo stress“. 

    Dean aveva trovato la giusta terapia che poteva ridargli equilibrio: l’escursionismo. Ma non era sufficiente a placare quel senso di smarrimento.

    “Nella foresta pluviale della Tasmania ho trovato quello che cercavo: la pace. Quando non praticavo l’escursionismo, ero agitato, ansioso e spesso l’unica cosa che desideravo era la totale solitudine. I miei attacchi incontrollati di ira erano sempre più frequenti, sia contro mia moglie, sia contro i miei figli. Una volta rischiai di colpirla fisicamente se avesse provato a sfidarmi”.

    “Nei mesi successivi, il mio stato fisico e mentale era in progressivo deterioramento. Ero profondamente depresso. Mi sentivo come avvolto da una nebbia che offuscava la mia mente. Per poter dormire, mi imbottivo di paracetamolo e codeina in compresse. Inoltre, ho cominciato a bere pesantemente ed erano più i giorni che trascorrevo a letto che quelli in piedi”.

    A risvegliare ancora una volta i suoi demoni furono quelle immagini del passato riaffiorate alla vigilia del nono anniversario della morte di Namir e Saeed. Dean era ossessionato da quell’episodio. Trascorreva delle ore a scrutare le mail che aveva conservato, domandandosi a ripetizione se avesse fatto abbastanza per indagare sulla loro morte. 

    (Qui sotto il video che mostra l’attacco di un elicottero americano Apache diffuso nel 2010 da Wikileaks)

    Namir era stato ucciso nella prima ondata di bombardamenti, come ha mostrato il video fatto circolare nel 2010 in rete, mentre Saeed era stato ucciso in un secondo attacco. Ancora più drammatiche furono le parole pronunciate al momento del raid dal pilota dell’Apache: “Oh, sì, guarda quei bastardi morti” e la risposta del suo compagno che commenta “Bello!”. 

    La visione di quei frammenti di video rigettarono Dean nella disperazione. Dentro di lui, stava cadendo tutto a pezzi. “Pochi giorni dopo la morte di Namir e Saeed, ho quasi avuto un esaurimento nervoso nel mio ufficio. Ho pianto e ho pensato che la cosa migliore che potessi fare era dimettermi. Lo stress era troppo. Qualcuno più forte di me avrebbe dovuto prendere il mio posto”. 

    Il video è stato diffuso nell’aprile del 2010. Alla fine di luglio, Dean ha ammesso di sentirsi disperato e incapace di trovare pace. L’unica soluzione era quella di sottoporsi a un trattamento specifico in un ospedale psichiatrico. 

    Per più di un mese, l’ex giornalista di Reuters è stato ricoverato in una struttura specializzata nella cura dei disturbi mentali di Melbourne. 

    Devo uscire sano. Devo farlo, soprattutto per il bene della mia famiglia”

    Dean è stato dimesso dalla struttura ospedaliera dopo cinque settimane di trattamenti, ma i passi da compiere per uscire definitivamente dal tunnel buio che ha imbucato anni addietro sono ancora tanti. 

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