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    Ecco perché il Regno Unito deve rimanere nell’Unione europea

    L'intervista di Davide Lerner a un sostenitore della campagna per il remain, Tony Travers, professore dell'Lse di Londra ed esperto di politica britannica

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 23 Giu. 2016 alle 08:57 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:14

    Alla London School of Economics TPI incontra un sostenitore della campagna pro remain. Tony Travers, professore nonché noto esperto di politica inglese, dice di essere un conservatore e in quanto tale “prudente, poco propenso al cambiamento”.

    Le argomentazioni pro-Brexit proprio non la convincono?

    Sono sensibile agli appelli per un ritorno alla sovranità nazionale, capisco le preoccupazioni riguardo il controllo delle frontiere e del processo legislativo. Ma non dobbiamo dimenticare che nel Regno Unito il successo economico si verifica proprio nelle regioni ad alto tasso d’immigrazione. Guardi a Londra, vibrante metropoli internazionale, in cui la percentuale di inglesi bianchi è inferiore al 50 per cento. Proprio dove gli arrivi sono meno significativi, al contrario, l’economia fa fatica e vola invece il sostegno per Brexit. Può sembrare paradossale, ma d’altronde la campagna è divenuta irrazionale da diversi punti di vista. I fatti sono stati sacrificati e distorti per convenienza politica, gli esperti attaccati. Pensi alla sparata che il Regno Unito devolve 350 milioni di sterline all’Unione europea ogni settimana: è continuata a circolare anche dopo che è stata smentita dalle fonti più autorevoli e indipendenti. L’omicidio Cox non ha fatto che confermare come il processo democratico sia andato fuori controllo. Credo però che l’episodio scoraggerà molti dal votare per il leave: c’è una forte presenza di laburisti pro brexit in quella zona, e un atto di violenza politica dell’ultra destra gli farà venire la nausea all’idea di votare per lo stesso schieramento. 

    Crede che l’Unione Europea venga trattata un po’ come un capro espiatorio, come causa di mali di cui non è responsabile? 

    In larga misura sì, la globalizzazione ha causato cambiamenti forti nel mercato del lavoro producendo nuovi vincitori e nuovi sconfitti, e l’Ue è ricettacolo della frustrazione di chi ne è stato danneggiato. Ma a parte questo c’è una divisione profonda all’interno dell’Unione fra chi la concepisce come un blocco di libero scambio, la cui raison d’etre si riassume quindi nella parola “mercato”, e chi invece la vede come un blocco di stati destinati a formare un’unica entità sovrana. Paesi come il Regno Unito, ma anche l’Olanda, la Svezia e l’Irlanda per citarne alcuni, non sono stati mai davvero convinti del progetto federalista dei padri fondatori. Non hanno gli “Stati Uniti d’Europa” come loro ambizione ultima, sono casomai spaventati da questo tipo di prospettiva. Paesi come Francia e Germania, più propensi ad andare nella direzione dell’integrazione politica, si sono dimostrati poco disponibili a sacrificarsi per la propria causa. Durante la crisi dell’eurozona, quando è emerso con evidenza che era necessario creare un’unione fiscale per sostenere i più deboli all’interno dell’UE, si sono tirati indietro.

    Questo non è il primo referendum inglese sui rapporti con le istituzioni europee, assomiglia a quello del 1975?

    No, nel 1975 era passato molto meno tempo dalle grandi guerre mondiali. Durante la campagna veniva continuamente citato il rischio di un ritorno al conflitto in Europa – le istituzione europee avevano garantito un periodo di coesistenza pacifica che non veniva dato certo per scontato. Durante questa campagna, invece, il tentativo di Cameron di riproporre la stessa argomentazione ha fatto solamente sghignazzare gli elettori: figurati se una secessione inglese può causare un ritorno alla guerra! A questa differenza si aggiunge quella che nel 1975 i paesi membri erano molti di meno: i pro Brexit odierni non si stancano di ripetere che 28 stati sono troppi, in particolare viste le discrepanze significativa nei livelli del Pil. Ci sono però anche aspetti che accomunano i due referendum. Entrambi sono stati convocati da partiti divisi per amministrare e magari risolvere i propri conflitti interni. All’epoca fu il laburista Wilson a spingere per la consultazione democratica, per poi far campagna per rimanere contro la fazione di Jeremy Corbyn. Stavolta è il turno di Cameron, che se perdesse dovrebbe quasi certamente cedere il passo all’ex sindaco di Londra Boris Johnson. 

    E Nigel Farage potrebbe celebrare il trionfo…

    Bè, non si può negare che sia stato lui a far sì che il referendum venisse inserito nell’agenda dei conservatori. E sempre lui ha applicato la pressione politica necessaria affinché si verificasse davvero. Quindi sì, celebrerebbe il trionfo, la vittoria nella battaglia di una vita. Non prevedo però un grande futuro per lui e per il suo Ukip: con la Brexit non avrebbero più ragione di esistere, mentre un voto per remain metterebbe a tacere la questione dei rapporti fra Regno Unito e Ue per un bel po’. Rimarrebbero tagliati fuori. 

    — LEGGI ANCHE: ECCO PERCHÈ IL REGNO UNITO DEVE USCIRE DALL’UNIONE EUROPEA

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