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    Ecco perché il Regno Unito deve uscire dall’Unione europea

    L'intervista di Davide Lerner al fondatore dell’antieuropeista Uk Indipendence Party (Ukip), Alan Sked

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 23 Giu. 2016 alle 08:07 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:14

    I sondaggi su una possibile Brexit continuano a rimanere
    incerti, qualcuno continua a dare in vantaggio il fronte del leave nonostante l’effetto
    dell’omicidio della deputata Cox al grido di “Britain first”. Alan Sked,
    fondatore dell’anti-europeista “Uk Indipendence Party” (Ukip), non se ne
    rammarica. Gli anni consacrati alla causa dell’euroscetticismo, anche dopo il
    litigio con Nigel Farage che ne ha determinato l’espulsione dal partito,
    giungono ora ad una resa dei conti definitiva. TPI lo intercetta a Londra, dove
    è arrivato dalla Scozia per seguire gli ultimi sviluppi prima del voto.

    Dopodomani
    si potrebbe consumare l’atto a cui ha dedicato le battaglie di una vita. È emozionato?

    In effetti sì, e le confesso che sto cercando
    disperatamente di tenere a bada l’ottimismo. Questa volta è tutta un’altra
    storia rispetto al referendum sull’uscita dall’Ue del 1975, soltanto due anni
    dopo l’ingresso nella Comunità economica europea (Cee). Allora l’establishment
    era tutto dalla parte di Wilson, che aveva rinegoziato aspetti minuscoli dei
    nostri rapporti con la Cee per poi mettersi a fare campagna per restare.
    Stavolta abbiamo un’importante sezione dei media che ci sostiene, partiti
    importanti che sono divisi e in alcuni casi propendono per la Brexit, un primo ministro che si inventa ridicoli scenari da
    armageddon
    sull’uscita perché i sondaggi lo mandano nel panico. E poi c’è l’affluenza:
    sicuramente non saranno i pro Brexit ad impigrirsi e non andare a votare.
    L’Ukip fu primo partito alle elezioni europee nel maggio 2014 proprio per
    questo motivo – alle politiche un anno più tardi non prese nemmeno un seggio.
    Per noi euroscettici il referendum è l’occasione di una vita, mentre i pro remain sono poco convinti, perfino svogliati. Primo fra tutti Corbyn, che
    nel 1975 votò per uscire.

    Mi
    convinca che vi conviene uscire dall’Unione europea.
     
     

    Parto dalla questione più importante, quella
    democratica. Uscendo torneremmo ad essere un paese normale, una nazione in grado
    di auto-governarsi, in cui le leggi possono essere cambiate soltanto dal Parlamento
    inglese. Risparmieremmo poi circa 10 miliardi l’anno di contributi europei – di
    questi tempi non è poca cosa. Margaret Thatcher riuscì a farseli diminuire di
    un terzo, con il suo celebre discorso “I want my money back” (restituitemi i
    miei soldi!) a Fontainbleau nel 1984. Ma rimangono troppo alti e alimentano
    troppi sprechi. Ma lei lo sa che al parlamento europeo ogni deputato ha diritto
    a 22.000 euro al mese per pagare i propri assistenti, che spesso e volentieri
    si girano i pollici? E che riceve quattromila euro al mese di “spese d’ufficio”
    che non vengono nemmeno rendicontate? E
    vogliamo parlare della doppia sede? In terzo luogo c’è la questione
    dell’immigrazione. Ogni anno arrivano nel Regno Unito 200.000 persone, di cui
    la metà dall’interno dell’Unione. Servizi e infrastrutture non ce la fanno, il
    problema del sovraffollamento è reale. Prenda ad esempio Londra: non ci sono abbastanza
    case e i traporti pubblici sono sovraccarichi, prendere la metro nelle ore di
    punta è diventato impensabile. Quanto al mercato unico, non mi venga a dire che
    ne resteremmo esclusi. Come ha chiesto l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, da
    quando in qua serve far parte di un’entità politica per poterci commerciare?

    Boris
    Johnson è uomo simbolo della campagna per l’uscita. Di lui si dice che sposi la
    causa in maniera strumentale, per prendere il posto di Cameron a Downing
    Street.

    Con la Brexit Boris Johnson diventerebbe quasi
    certamente primo ministro, è vero, ma questo non vuol dire che non sia
    intellettualmente onesto. Lo conosco bene, Boris, ed è sempre stato molto
    critico dell’Unione europea. Quando Cameron è tornato da Bruxelles con
    concessioni risibili – il “freno d’emergenza” per i migranti in caso di
    sofferenza del sistema di welfare può essere attivato solo con l’ok del
    Consiglio europeo, giusto per dirne una – ha stabilito che non fosse
    abbastanza. Come Churchill, anche lui crede in un’Inghilterra “intimamente
    associata” all’Unione, ma che non ne faccia parte. E come avvenne con Churchill
    nel 1940, quando da popolarissimo
    outsider
    politico scalzò Chamberlain per poi salvare l’Europa, lo stesso avverrà con
    Johnson. Grazie a lui tutta l’Europa si libererà dal giogo dell’UE, sfruttando
    l’effetto domino del referendum.

    Sarebbe a
    dire? Si aspetta che la Brexit abbia un effetto anche sugli altri paesi?

    Sì, mi aspetto che la
    gente cominci a protestare anche negli altri paesi, fino ad ottenere un proprio
    referendum. Alla fine rimarrà solo un nocciolo duro di stati, comunque incapaci
    di prendere decisioni importanti. Quanto agli effetti sul nostro equilibrio
    interno, da scozzese le dico che non mi aspetto forti ripercussioni. C’è una
    saturazione da referendum lassù, e l’argomento che i nazionalisti ne farebbero
    un altro subito per uscire dal Regno Unito e rientrare in Europa non mi
    convince. È vero, l’europeismo è molto più forte che in Inghilterra, ma questa
    campagna il partito nazionalista non si è dato molto da fare per remain. E si
    è sviluppato un nucleo pro Brexit per nulla trascurabile. 

    — LEGGI ANCHE: ECCO PERCHÈ IL REGNO UNITO DEVE RIMANERE NELL’UNIONE EUROPEA

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