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    Quarantatré minuti

    È quanto ha impiegato a morire ad aprile un detenuto americano durante l'esecuzione capitale

    Di Edoardo Quadri
    Pubblicato il 9 Ott. 2014 alle 08:55 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 08:56

    Dopo qualche minuto, nel penitenziario di McAlester, in Oklahoma, si sono chiuse le tende come a un intervallo teatrale.

    Da una parte della vetrata il pubblico, dall’altra un team di medici e Clayton Lockett, detenuto di 38 anni originario dell’Oklahoma condannato a morte per aver rapito, ferito con due colpi di arma da fuoco e infine sepolto, mentre era ancora viva, la 19enne americana Stephanie Neiman.

    Con l’iniezione letale solitamente ci vogliono dieci minuti per morire. Lo scorso 29 aprile, Lockett ne ha impiegati quarantatré. Un’agonia apparentemente interminabile, durante la quale il detenuto, non totalmente sedato, si contorceva sul lettino avvolto dalle cinghie nere che gli immobilizzavano il corpo.

    Secondo il report stilato da una commissione esaminatrice dello Stato dell’Oklahoma, l’ago che avrebbe dovuto inondare le vene di Lockett con il liquido mortale sarebbe invece finito al di fuori dei vasi sanguigni andando ad avvelenare gli organi e i tessuti del condannato, causandogli un arresto cardiaco e una sofferenza che secondo molti valica il principio espresso nell’ottavo emendamento della Costituzione Americana che vieta di “infliggere pene crudeli e inconsuete”.

    A seguito di questa vicenda, il governatore dell’Oklahoma Mary Fallin ha richiesto una modifica delle procedure da seguire in futuro, prevedendo tra le altre misure una migliore formazione del personale per evitare errori tecnici e un incremento delle dosi della sostanza somministrata ai condannati di almeno cinque volte rispetto a quella iniettata nel corpo di Lockett.

    Una mappa del Guardian sulla pena capitale nel 2013

    Sebbene il presidente Obama sia intervenuto tempestivamente sottolineando quanto il caso Lockett fosse estremamente preoccupante, molti criticano il presidente americano per non aver adottato una posizione più decisa sul dibattito della pena di morte negli Usa.

    La realtà è anche nei numeri: in un Paese in cui, secondo un sondaggio Gallup, il 61 per cento della popolazione si dice tuttora favorevole alla pena di morte, risulterebbe politicamente svantaggioso per un presidente intraprendere una battaglia sul tema.

    Non c’è dunque da stupirsi se proprio Obama ritiene che esistano alcune circostanze in cui i crimini perpetrati siano talmente efferati che la pena di morte sia di fatto appropriata. “Ciononostante”, ha dichiarato il presidente americano al termine di un incontro con la Cancelliera tedesca Angela Merkel, “è impossibile negare che ci siano stati problemi nel passato durante l’esecuzione di alcuni detenuti e che sia arrivato il momento in cui la società americana si ponga domande importanti su questa tematica”.

    Il numero di esecuzioni negli Stati Uniti è diminuito a partire dal 1999, anno in cui si è registrato il numero più alto di detenuti condannati alla pena di morte (98 casi), e negli ultimi anni alcuni stati federali – tra cui New York, New Jersey, New Mexico, Illinois, Connecticut e Maryland – hanno abolito la pena capitale.

    Mentre lo scontro politico a tutti i livelli, da quello locale a quello federale, continua a contrapporre visioni discordanti, e a volte inconciliabili, l’elenco delle persone che attendono di essere uccise continua ad aumentare: Charles Warner, condannato per aver violentato e ucciso una bambina di undici anni, verrà sottoposto alla stessa iniezione letale di Lockett il prossimo 13 novembre, Richard Glossip il 20 novembre e John Grant il 4 dicembre di quest’anno.

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