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    Quando scrivere è un reato

    Cosa si rischia a essere un giornalista in Egitto?

    Di Lorena Cotza
    Pubblicato il 27 Giu. 2014 alle 09:19 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:19

    La sua unica colpa era quella di essere in piazza. Poco importa se si trovava là solo per raccogliere alcune testimonianze e scattare qualche foto.

    Il 22 giugno Samer Omar, giornalista del quotidiano El-Shorouk, è stato arrestato dalle forze di sicurezza egiziane durante una manifestazione.

    Tenutasi in occasione di una giornata di solidarietà con gli attivisti detenuti, la marcia era un’aperta sfida alla legge anti-protesta approvata nel 2013 secondo la quale per organizzare una manifestazione serve chiedere un permesso preventivo alle autorità.

    “Samer stava semplicemente intervistando i manifestanti e l’hanno accusato di attentare alla morale della società”, spiega Doaa Kassem con una risata incredula, commentando i contorni paradossali della vicenda. Doaa è la portavoce della sede egiziana dell’Ong Media and Diversity Institute, che da anni si occupa di promuovere forme di giornalismo responsabile e imparziale in Egitto.

    “Dallo scorso giugno, quando i militari guidati da al-Sisi hanno deposto Morsi, la situazione è peggiorata drammaticamente – dice Doaa – Durante il regime di Mubarak sapevamo quali erano i nostri limiti. Ma adesso nessuno sa cosa aspettarsi: qualche giorno fa anche i giornalisti di una rivista allineata al regime sono stati attaccati dalla polizia. Non c’era alcun motivo, se non il fatto che si trattasse di giornalisti.”

    Samer Omar è stato successivamente rilasciato per mancanza di prove, ma questo tipo di arresti senza alcun capo d’accusa stanno diventando sempre più frequenti. L’Egitto si classifica al 159esimo posto su 179 paesi nell’indice sulla libertà di stampa stilato da Reporters Without Borders, e rischia di perdere ulteriori posizioni in seguito alla recente ondata di intimidazioni contro attivisti e giornalisti.

    Dal luglio 2013 almeno cinque giornalisti sono stati uccisi, 45 aggrediti e altri 44 hanno subito arresti arbitrari, secondo i dati raccolti dal Committee to Protect Journalists (CPJ).

    Il caso eclatante dei tre giornalisti di Al-Jazeera, arrestati a dicembre e condannati a sette anni da un tribunale del Cairo lunedì  scorso,  getta ulteriori ombre sul governo di al-Sisi. Peter Greste, Mohamed Fahmy e Baher Mohamed sono stati accusati di collaborazione con i Fratelli Musulmani e di aver diffuso notizie false che danneggiano la reputazione dell’Egitto. Ed è bastato un bossolo in tasca, raccolto durante una protesta in piazza, per far scattare l’accusa di “possesso di munizioni” ed estendere la condanna di ulteriori tre anni per Fahmy.

    Si tratta di tre giornalisti di spicco e l’appartenenza a un’emittente televisiva come Al Jazeera ha garantito visibilità alla vicenda. La sentenza ha indignato governi e redazioni di tutto il mondo, che hanno lanciato un accorato appello al presidente egiziano e la richiesta di liberazione immediata. Ma per i giornalisti locali che non hanno il nome di grandi testate alle spalle la situazione è ancora più critica. Le notizie dei loro arresti, nella maggior parte dei casi, vengono accolte dal silenzio e dall’indifferenza.

    “I giornalisti locali rischiano molto di più rispetto allo staff internazionale”, dice Shaimaa Aboul Kheir, presidente della sezione del Committee to Protect Journalists per l’Egitto. “La maggior parte dei giornalisti sotto attacco scrive per testate locali e spesso sono freelance, che lavorano senza alcun contratto e protezione.”

    Il sindacato dei giornalisti egiziani si è rivelato uno strumento inefficace di fronte alla recente ondata di violenza. Come spiega Shaimaa, si tratta di un’istituzione elitaria, che lascia privi di tutela una vasta fascia di lavoratori: “E’ davvero difficile entrare a far parte del sindacato. Bisogna appartenere a una testata che pubblica regolarmente e avere un contratto ufficiale. Chi scrive per un giornale online o lavora come freelance è automaticamente escluso”.

    Mahmoud Abou Zeid, un fotografo freelance di 27 anni che lavorava per l’agenzia londinese Demotix, è imprigionato nello stesso complesso dove sono tenuti i tre giornalisti di Al Jazeera. Fu arrestato lo scorso agosto, durante gli scontri tra i sostenitori dell’ex-presidente Morsi e i militari del generale al-Sisi.

    “La nostra organizzazione ha lanciato una campagna per la liberazione di Mahmoud Abou Zeid, ma si tratta di un freelance e in pochi se ne sono interessati”, dice Shaimaa. Nonostante non ci sia alcuna accusa formale e il processo sia in una fase di stallo, il giovane fotografo sta trascorrendo il suo decimo mese nelle carceri egiziane e la campagna di CPJ non ha finora portato ad alcun risultato. Ma non tutti guardano con preoccupazione al nuovo regime.

    Numerosi giornalisti sostengono la posizione di al-Sisi e definiscono le denunce di attivisti e organizzazioni per i diritti umani come pura propaganda anti-governativa. “Molti giornalisti hanno accolto con favore la condanna dei colleghi di Al Jazeera – spiega Shaimaa – Sostengono che i loro servizi costituivano una minaccia alla sicurezza nazionale. E questi giornalisti sono gli stessi che parlano nei talk show, ed è per questo che i reporter indipendenti ricevono minacce anche da normali cittadini, che credono a tutto quello che sentono in TV”.

    “Tra i giovani però c’è un sentimento diverso”, conclude Shaimaa, lasciando trapelare un barlume di speranza per il futuro della stampa egiziana. “Hanno capito che sono tutti sotto attacco, e che si devono aiutare l’uno con l’altro se vogliono continuare a lavorare in modo indipendente”.

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