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    Il ragazzo che è morto dopo essersi dato fuoco in nome del Tibet

    Dorjee Tsering, un tibetano di 16 anni, si è immolato a Dehradun, in India, per protestare contro l'occupazione cinese del Tibet. Il 3 marzo è morto

    Di TPI
    Pubblicato il 3 Mar. 2016 alle 18:10 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:14

    “Ho sedici anni. Nel 1959, la Cina occupò il Tibet. Ciò ha portato a una frammentazione del popolo tibetano… Alcuni di noi sono in Tibet, alcuni in esilio in altri paesi. Sin da bambino, ho sempre avuto una forte volontà di fare qualcosa per il mio paese. Quindi, ho pensato che non ci fosse nient’altro che io potessi fare se non immolarmi. Perché se vi sono immolazioni, la gente rimane scioccata, e pensa che chi commette questo atto lo ha fatto per il proprio paese. Quando saranno scioccati, paesi come l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’Africa inizieranno a prestare attenzione al Tibet”.

    Queste sono le parole con cui Dorjee Tsering, 16 anni, commenta il proprio atto di immolazione da un letto d’ospedale a Nuova Delhi. Lunedì 29 febbraio 2016 si è versato una tanica di benzina addosso dandosi fuoco. Il 3 marzo 2016 Dorjee è morto.

    Proprio come lui, altri 151 tibetani hanno fatto lo stesso a partire dal 2009 in protesta contro l’occupazione cinese. Di queste immolazioni, 144 sono state compiute all’interno del Tibet, otto da rifugiati che vivono tra l’India e il Nepal, come Dorjee.

    Un’altra immolazione era avvenuta in Tibet lunedì scorso, nel distretto di Kardze dell’attuale Sichuan. In questo caso, a darsi fuoco è stato Kalsang Wangdu, un monaco di 18 anni morto nelle ore successive.

    Le autorità cinesi hanno intimato alla famiglia di Kalsang di non diffondere informazioni riguardo l’accaduto. Negli anni passati, quando si verificava un caso di immolazione le autorità cinesi hanno spesso arrestato i familiari con l’accusa di omicidio, per distogliere l’attenzione e negare il valore dall’atto di protesta.

    Questi atti avvengono in un periodo di forti repressioni da parte della Cina sulla popolazione tibetana. Solo nelle ultime settimane, alcuni monaci sono stati arrestati per aver organizzato delle preghiere pubbliche per la salute del Dalai Lama, uno scrittore è stato arrestato per la terza volta con l’accusa di “spingere al separatismo” e un monaco, in seguito al ritrovamento di foto del Dalai Lama nella sua abitazione, ha ricevuto una sentenza di due anni per “disturbo della quiete pubblica”.

    Questi atti di repressione non sono fatti isolati, ma si aggiungono a una lunga lista iniziata nel 1959, quando il popolo tibetano si ribellò all’occupazione cinese e il Dalai Lama lasciò il Tibet rifugiandosi in esilio in India. Da allora la Cina ha messo in atto politiche che cercano di eliminare ogni tipo di protesta contro il regime, portando a un’assimilazione forzata dei Tibetani all’interno del popolo cinese.

    Mentre la Cina acquista potere a livello globale, il rispetto per i diritti umani all’interno del paese e in Tibet non sembra progredire. Al giorno d’oggi, possedere una bandiera tibetana costituisce una base sufficiente per essere arrestati, così come manifestare pubblicamente il proprio dissenso con il governo o protestare contro l’inquinamento delle terre tibetane.

    Nel 2008 proteste di massa contro il governo cinese sono sorte in molte zone del Tibet, e migliaia di persone sono state arrestate come conseguenza. A partire da 2009, i tibetani hanno iniziato a manifestare il proprio dissenso dandosi fuoco, immolandosi per dare voce al malcontento del proprio popolo. 

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