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    Il profumo della pioggia

    Gli abitanti del villaggio indiano di Kannauj sono impegnati da millenni nella produzione di essenze. Il loro maggiore talento però sta nel ricreare l'odore della pioggia

    Di Cynthia Barnett
    Pubblicato il 11 Mag. 2015 alle 17:34 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:24

    Il villaggio di Kannauj si trova in un’area polverosa dello stato indiano dell’Uttar Pradesh, a quattro ore di macchina dal Taj Mahal, la bianca costruzione in marmo voluta da Shah Jahan, sovrano dell’impero Mogul, in memoria della sua terza e favorita moglie, Mumtaz Mahal.

    L’imperatrice morì nel 1631 dando alla luce il suo tredicesimo figlio; il monumento, per Shah Jahan, rappresentava dunque la celebrazione dell’amore perduto.

    Il sovrano però trovò un modo del tutto personale di portare il lutto per la sua compianta regina: Jahan infatti, smise del tutto di portare il profumo. Gli oli profumati – noti in India come attars– erano una delle grandi passioni che la coppia aveva in comune.

    Da allora fino ai nostri giorni, Kunnauj è divenuto il luogo dove procurarsi fragranze pregiate – olio di gelsomino, acqua di rose e le radici di un’erba chiamata vetiver. Nessuno sa esattamente quando la produzione di attar sia cominciata.

    Gli archeologi hanno ritrovato vasi di argilla, utilizzati per distillare le essenze e risalenti a migliaia di anni fa, prima che la popolazione degli Harappa si insediasse nella valle dell’Indo.

    Oggi, Kannauj è il centro di una profumeria storica che attira la maggior parte degli abitanti delle città circostanti. In un modo o nell’altro, infatti, la loro storia è legata all’arte di creare profumi: dai robusti artigiani che fanno bollire i petali in grandi pentole di rame alle madri che arrotolano all’ombra bastoncini d’incenso, mentre i bambini dormono vicino a loro su materassini colorati.

    Oltre all’antica profumeria, gli abitanti di Kannauj hanno ereditato un’altra significativa abilità: riescono a catturare l’odore della pioggia.
    Ogni tempesta porta con sé una fragranza, o ne lascia una al suo passaggio.

    Il sibilo metallico che riempie l’aria prima di un temporale estivo proviene dall’ozono, una molecola formata dall’interazione delle cariche elettriche – in questo caso prodotte da un fulmine – con le molecole dell’ossigeno.

    Allo stesso modo, il familiare odore di muffa che si sprigiona nelle strade proviene da un composto chiamato geosmina, un sottoprodotto di un batterio che, per esempio, conferisce alle barbabietole il sapore terroso.

    La pioggia assorbe anche gli odori delle molecole con cui interagisce. È così quindi che la sua fragranza può variare come varia quella dei fiori di tutti i continenti: dipende dal tipo di temporale, dal punto della terra in cui cade, dalla memoria soggettiva del naso che inala il suo profumo.

    La pioggia nelle città odora di asfalto fumante, in contrasto con la pioggia della campagna che sa di dolce manto erboso. La pioggia dell’oceano è salata come i molluschi del Maine portati a riva dalla marea.

    Nel deserto a sudovest degli Stati Uniti, i rari temporali caricano l’atmosfera con il profumo di salvia e di creosoto. Nel sudest, le frequenti burrasche lasciano nell’aria l’umida freschezza simile a una foresta di pini. “Puliti ma funky”: così Thomas Wolfe definiva il profumo squisito nell’America del sud.


    Ma in nessun altro luogo, l’odore pungente della pioggia è più forte che agli estremi climatici del mondo – India, sudest asiatico, l’Africa dell’ovest e parte dell’Australia – dove una secca striscia di deserto viene inondata da una delle più drammatiche tempeste della terra.

    In questi luoghi, che per larga parte dipendono dai temporali della stagione autunnale, i monsoni plasmano ogni cosa: dall’infanzia alla cultura, fino al commercio.


    Per Sanjiv Chopra, scrittore e fisico della Harvard Medical School, l’odore della tanto attesa pioggia, che bagna la secca terra indiana, è “la fragranza della vita stessa”. L’essenza della terra raggiunge il suo culmine quando la pioggia disseta un terreno disidratato. Può stuzzicare così tanto la sete degli animali dovuta alla siccità da spingere il bestiame a camminare in circolo.

    Negli anni Cinquanta e Sessanta, due mineralogisti australiani, Isabel Joy Bear e Richard Grenfell Thomas, furono mandati in India per scoprire la fonte di questo profumo piccante.

    Alla fine delle loro ricerche, collegarono quel profumo all’azione dei componenti organici che si formano nell’atmosfera, nonché ai terpeni prodotti dalle piante. Principale componente della trementina e della resina, i terpeni possono trovarsi anche negli oli essenziali: sono ciò che conferisce ai pini la freschezza, la sensazione di freddo alla menta e il sapore piccante allo zenzero.


    Le rocce e l’argilla assorbono i terpeni e altre molecole dall’atmosfera, specie nelle zone secche e desertiche, producendo una grande quantità di materiale organico. Quando l’umidità cambia prima dei monsoni, scioglie quel materiale, presente nei pori rocciosi, liberando così il suo odore pungente. L’aroma è più forte all’inizio della siccità perché gli oli essenziali hanno avuto più tempo per formarsi negli strati rocciosi.

    Pubblicato sul quotidiano scientifico Nature nel 1964, Bear e Thomas proposero di chiamare la fragranza proveniente dalla pioggia come petrichor, dal greco “petra” (roccia) e “ikhor”, il sangue degli Dei nella mitologia greca.

    Tuttavia, gli studiosi compresero di non essere stati i primi a identificare il profumo dei temporali.
    Non erano nemmeno i primi ad averla estratta. I
    l petrichor, in realtà, era già la fragranza distintiva a Kannauj. Estratta dall’argilla essiccata e distillata con tecniche antiche, è conosciuta come mitti attar – il profumo della terra.

    Quando lessi lo studio degli scienziati australiani, dubitai che gli abitanti di Kannauj, a cinquant’anni di distanza, fossero ancora impegnati nella produzione del profumo della pioggia. Per puro caso, riuscii a rintracciare Shakti Vinay Shulka, direttore dellIndia Fragrance & Flavour Development Centre, un’agenzia governativa impegnata nel sostegno dell’industria profumiera locale.


    Fui entusiasta di scoprire che, non solo nel villaggio di Kannauj si produceva ancora il mitti attar, ma che avevo anche la possibilità di vedere con i miei occhi l’intero processo di estrazione della fragranza.
    Fu così che, dopo un volo di 8mila miglia per l’India, e un viaggio in treno diretto al centro rurale dell’Uttar Pradesh, mi ritrovai in un’antica città fortemente legata al passato.

    Nella sua periferia, i campi aromatici vengono coltivati per miglia, intervallati dai camini di centinaia di forni a mattone, tipici della regione. Come gli attar, anche i mattoni vengono prodotti con la stessa tecnica di centinaia di anni fa: l’argilla rossa viene tutt’oggi tagliata, accatastata e cotta da uomini i cui padri, nonni e bisnonni tagliavano, accatastavano e cuocevano usando il medesimo processo.


    Ancora oggi Kannauj conserva gran parte della sua tradizione nel settore della profumeria; circa 40mila dei suoi 70mila abitanti lavorano nell’industria dei profumi.

    Quando arrivai nella cittadina, notai lungo la strada alcune piccole case e negozi di profumi attaccati l’uno vicino all’altro. Sul corso principale, in un arco fatto di mattoni, erano incise in lingua urdu i tre business principali di Kannauj: “profumi, tabacco aromatizzato, e acqua di rose”.

    Shukla, un uomo del luogo descritto dai suoi colleghi come “il naso dei nasi”, mi fece da guida. Aveva imparato il mestiere nell’industria europea dei profumi, e soffre nel vedere come l’antico commercio dell’attar stia lasciando il posto alla modernità.

    Quando l’India iniziò a entrare in contatto con gli investitori stranieri all’inizio degli anni Novanta, i giovani indiani cessarono di acquistare l’attar, optando piuttosto per i profumi francesi.


    Negli ultimi dieci anni l’industria locale è sopravvissuta grazie alla popolarità dell’attar; ma molti stati federali dell’India vorrebbero bandirne la produzione a causa dei rischi alla salute derivanti dai materiali utilizzati. Per questo, fare affidamento su questa unica fonte di commercio potrebbe non essere più possibile in futuro.

    La nostra ultima fermata nel viaggio alla ricerca del mitti attar fu un negozio di vendita al dettaglio di profumi, il cui proprietario era un tale chiamato Raju Mehrotra.
    Mehrota sedeva alle spalle di uno scaffale riempito con bottiglie di vetro d’ogni forma e misura, riempite con le fragranze più disparate: gelsomino, rosa, champaca, lavanda, rosmarino, geranio e molte altre di cui non avevo mai sentito parlare.


    Il mitti attar si trovava in una bottiglia affusolata. Svitai il tappo, chiusi gli occhi e inalai il profumo della pioggia. Aveva lo stesso odore della terra. Era completamente diverso dal ricordo dell’aroma della pioggia che conservavo dai tempi della mia infanzia.


    Era diversa, ma attraente: calda, organica, ricca di minerali. Era il profumo dell’attesa, ripagata: quarant’anni o più ad aspettare la crescita di un albero di sandalo, il cui olio viene utilizzato come base per le essenze. 
    Quattro mesi di estate, prima che il monsone arrivi a luglio, un giorno per la lenta cottura dell’essenza nei forni, costruiti con mattoni di terracotta.

    Chiesi a Shukla, “il naso dei nasi”, di dirmi quali ricordi affiorassero nella sua mente quando inalava la fragranza. “Mi ricorda il profumo dell’India”, mi disse. “È il profumo della mia nazione”.

    Questo articolo è stato originariamente pubblicato quiTraduzione a cura di Jessica Cimino.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
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