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    In Medio Oriente a nessuno importa delle presidenziali americane

    L'analisi di Ugo Tramballi, giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore

    Di Ugo Tramballi
    Pubblicato il 17 Mar. 2016 alle 16:07 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 03:08

    Da Gibilterra a Hormuz, c’è un solo paese in tutto il Medio Oriente nel quale è aperto da tempo il dibattito su chi possa essere il prossimo presidente statunitense più utile, fra i candidati repubblicani e democratici. Israele, naturalmente. 

    Per il momento nel mondo arabo, come anche fra turchi e iraniani, ci sono altre priorità. Non solo: i paesi musulmani non hanno alcuna possibilità d’influenzare il voto degli americani. Gli israeliani sì, attraverso l’importante comunità ebraica negli Stati Uniti e le sue lobbies.

    Cruz, il candidato del Likud

    In Israele dove il Likud vince consecutivamente da cinque elezioni, l’opinione pubblica preferisce largamente un presidente repubblicano. Per un breve periodo, all’inizio delle primarie, gli israeliani sono stati gli unici al mondo ad augurarsi una vittoria di Donald Trump. 

    L’opinione ha incominciato a vacillare quando il miliardario di New York non ha preso posizione sul futuro di Gerusalemme e si è dichiarato “neutrale” sul conflitto fra israeliani e palestinesi.

    Il candidato ideale è dunque Ted Cruz: ultra religioso, incondizionatamente favorevole a Israele e a Bibi Netanyahu, e antiarabo fino al razzismo. Come Trump, ma senza tentennamenti verso lo stato ebraico. 

    Le destre e molti altri israeliani detestano Barack Obama: anche, ma non solo, per l’accordo sul nucleare iraniano. E non si fidano di Hillary Clinton: è difficile che la candidata democratica abbia di Netanyahu un giudizio meno negativo di quello maturato dal marito Bill, quando era presidente. 

    È uno dei pochi casi nei quali l’opinione degli israeliani differisce da quella della comunità ebraica americana, storicamente più vicina ai democratici che ai repubblicani.

    L’eredità comportamentale di Obama

    Riguardo agli altri mediorientali, i non israeliani, la grande maggioranza, fa testo l’ultima intervista di Barack Obama alla rivista The Atlantic. È la più efficace puntualizzazione del pensiero presidenziale, una specie di eredità più comportamentale che ideologica di Obama. Il presidente definisce un punto d’onore avere evitato di farsi trascinare nei conflitti della regione, conferma la sua scarsa stima per Netanyahu e soprattutto la distanza che si è creata fra Stati Uniti e Arabia Saudita. 

    Il caos mediorientale del quale i principali responsabili sono i sauditi e gli iraniani, dice Obama, “ci impone di dire ai nostri amici (l’Arabia Saudita, n.d.r.) come agli iraniani, che devono trovare un modo efficace di dividersi il vicinato”. L’obiettivo finale deve essere “una pace fredda”. 

    In altre parole, più diplomatiche, le due principali potenze regionali devono creare una struttura di sicurezza mediorientale senza la quale il caos continuerà.

    Poiché i protagonisti della crisi sono i paesi della regione, non più le vecchie potenze esterne (Usa, Russia, Gran Bretagna e Francia), il Medio Oriente non è più diviso in amici e nemici degli Stati Uniti. I tempi della Guerra fredda sono irrimediabilmente sepolti, anche se la Russia vorrebbe resuscitarli. 

    E in generale tutti detestano gli Stati Uniti: chi perché sono stati troppo inattivi, perché non hanno bombardato Damasco né mandato truppe qui e là; chi, come gli iraniani, perché l’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni economiche sono novità troppo fresche per essere giudicate positivamente.

    Hillary, la candidata di non tutti i sunniti

    Per forza di cose, arabi, turchi e iraniani non possono avere simpatia per nessuno dei candidati repubblicani. Cruz e Marco Rubio sarebbero certamente più interventisti di Obama, ma a favore di Israele: sauditi ed egiziani hanno le loro buone ragioni per non credere di avere solidi e duraturi sostegni da un presidente repubblicano. Ugualmente gli iraniani: il partito Repubblicano fa campagna contro l’accordo sul nucleare da quando, più di due anni fa, iniziò la trattativa.

    L’unica candidata democratica possibile, Hillary Clinton, ha una visione più internazionalista del ruolo americano nella regione di quanto non l’avesse Obama. Da segretario di Stato, Hillary non era così convinta di lasciare al suo destino Hosni Mubarak e certamente pensava che il sostegno del presidente ai Fratelli musulmani e a Mohammed Morsi, fosse un grave errore.

    Questo dovrebbe soddisfare i sauditi che fino all’ultimo avevano sostenuto il vecchio regime egiziano – insieme a Netanyahu – e che continuano a detestare i Fratelli musulmani ovunque si manifestino in Medio Oriente. 

    Ma Hillary è una chiara sostenitrice degli accordi con l’Iran e, come Barack Obama, è convinta che quel paese debba essere coinvolto e non escluso dagli equilibri regionali.

    Come già detto, l’unica vera grande novità del Medio Oriente maturata in questi anni, è che sono le potenze regionali a prendere le decisioni, non più gli attori esterni. E questo non è avvenuto perché Barack Obama ha fatto fare all’America un passo indietro: il disimpegno è la conseguenza di questa novità geopolitica, non la causa. 

    Per questo in Medio Oriente le presidenziali negli Stati Uniti non sono più l’avvenimento decisivo che erano un tempo.

    L’analisi è stata pubblicata da AffarInternazionali con il titolo “Primarie Usa, gli arabi cambiano canale” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore 

    * Ugo Tramballi è giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore 

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