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    Perché non ricordiamo quasi nulla dei nostri primi anni

    Già più di cento anni fa il padre della psicoanalisi Sigmund Freud parlava di “amnesia infantile”, e da allora molti psicologi si sono interrogati sull’argomento

    Di TPI
    Pubblicato il 27 Lug. 2016 alle 13:51 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:10

    Tutti abbiamo, chi più chi meno, dei ricordi della nostra
    infanzia, ma escludendo i casi di persone dotate di una memoria clinicamente
    straordinaria, i nostri primi anni di vita, dal giorno della nascita ai primi passi,
    dalle prime parole ai primi cibi, sono per la maggior parte di noi un grande buco
    nero.

    Spesso i ricordi che abbiamo, almeno per le generazioni più
    recenti, sono in buona parte frutto di fotografie, filmini di famiglia o
    racconti degli adulti presenti all’epoca, in primis i nostri genitori, ma se
    dovessimo escludere tutto questo corpus di ricordi esterni, probabilmente non
    rimarrebbe molto dei nostri primissimi anni.

    Già più di cento anni fa il padre della psicoanalisi Sigmund
    Freud parlava di “amnesia infantile”, e da allora molti psicologi, neuroscienziati
    e linguisti si sono interrogati sull’argomento, apparentemente anomalo visto
    che a quell’età i bambini sono come spugne, in quanto a ritmo di assorbimento
    di nuove informazioni, ma a quanto pare non riescono a formare chiari ricordi
    di quegli eventi.

    Come ricorda la BBC in un articolo dedicato alla questione,
    nel 19esimo secolo lo psicologo tedesco Hermann Ebbinghaus condusse una serie
    di esperimenti pionieristici su se stesso per testare i limiti della memoria
    umana. Inventò quindi le “sillabe nonsense”, una serie di parole inventata
    formate da lettere casuali, come “kag” o “slan”, e cercò di
    memorizzarne migliaia. I suoi studi dimostrano che nel giro di un’ora il
    cervello può dimenticare circa la metà di tutto quello che abbiamo imparato in
    un dato momento, e dopo trenta giorni, la quantità di informazioni rimaste
    nella memoria ammonta al 2-3 per cento, secondo un aumento esponenziale della
    dimenticanza.

    Quando però negli anni Ottanta del Novecento gli scienziati
    hanno affrontato la dimenticanza nei bambini, hanno notato che tra la nascita e
    i 6-7 anni, la memoria è molto più debole del normale: alcune persone possono
    ricordare eventi avvenuti quando avevano solo due anni, mentre altri possono addirittura
    non avere alcun ricordo fino ai 7-8 anni. Mediamente i primi sprazzi di ricordi
    risalgono ai tre anni e mezzo.

    La media però è variabile anche a causa di fattori
    apparentemente poco legati ai processi mentali, come la nazionalità: la
    psicologa Qi Wang della Cornell University ha infatti raccolto centinaia di
    ricordi di studenti universitari cinesi e americani, scoprendo che le storie
    americane erano più lunghe, più elaborate ed egocentriche, mentre le storie
    cinesi erano più brevi e semplici, oltre a essere più tardive di circa sei mesi.

    I ricordi “americani”, più dettagliati e concentrati sulle
    emozioni vissute più che sul fatto in sé, erano maggiori, e quando Wang ha eseguito
    lo stesso esperimento interrogando le madri dei soggetti su quegli eventi, ha
    scoperto che lo schema si ripeteva.

    “Se la società ti dice che quei ricordi sono
    importanti per te, vengono trattenuti”, sostiene la dottoressa Wang. Il
    record per i primi ricordi va ai Maori neozelandesi, la cui cultura include un
    forte accento sul passato.

    Studi hanno dimostrato che è la regione cerebrale dell’ippocampo
    la più coinvolta nei processi del ricordo, e alcuni sostengono quindi che la
    nostra assenza di ricordi nei primi anni di vita sia semplicemente dovuta al
    fatto che esso non sia ancora sufficientemente sviluppato, visto che proprio
    nello stesso periodo questo continua a dotarsi di nuovi neuroni.

    Il fatto che gli eventi dell’epoca, che sebbene siano stati dimenticati
    influenzano inconsciamente i nostri comportamenti futuri, siano completamente
    scomparsi non è una certezza: secondo Jeffrey Fagen, della St. John’s
    University, “i ricordi sono probabilmente conservati in qualche area della
    mente al momento inaccessibile, ma è molto difficile da dimostrare empiricamente”.

    Inoltre, altri studi hanno dimostrato che è molto facile convincere persone di ricordi in realtà mai vissuti in prima persona, proprio perché anche molte delle memorie vere che abbiamo sono frutto di elaborazioni successive a partire da oggetti esterni, come immagini o racconti, a dimostrazione che non ci si può mai fidare fino in fondo nemmeno dei propri ricordi.

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