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    Perché Ankara festeggia la vittoria di Trump

    Gulen, curdi e Siria. Ecco i motivi per cui Erdogan ha brindato per Trump, condonandogli le sue affermazioni contro i musulmani

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 22 Nov. 2016 alle 12:09 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:35

    Una collaboratrice di origini americane del think-tank legato al giornale turco Daily Sabah, la testata in assoluto più vicina al presidente Erdogan, è stata accolta in ufficio con un applauso e un accenno di ola il giorno dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.

    Un episodio a dir poco paradossale, non solo perché l’americana in questione sosteneva la Clinton, ma soprattutto perché in fondo Donald Trump è il politico che in campagna elettorale ha ipotizzato di chiudere le frontiere americane a tutti i musulmani del mondo. Quindi, a rigor di logica, anche a Racep Tayyip Erdogan, il presidente turco che a Daily Sabah viene ubbidito senza che neppure osino interpellarlo.

    Come seguendo una riedizione della massima kantiana: agisci in una maniera che Erdogan, se conoscesse le tue azioni, approverebbe.

    Eppure, forse timoroso di venire respinto alla frontiera, Erdogan ha immediatamente invitato Trump a venire in visita in Turchia. Confermando l’entusiasmo con cui gli ambienti governativi, di cui gli uffici di Ankara del Daily Sabah sono un’ottima cartina di tornasole, hanno accolto la sua vittoria sulla Clinton.

    I motivi? Possono essere riassunti in tre parole chiave, e toccano le questioni più importanti dell’attualità politica turca. Gulen, i curdi e la Siria. A partire da Fathullah Gulen, la carismatica guida religiosa accusata di aver pianificato il tentativo di coup dello scorso 15 luglio.

    Ankara è davvero convinta di poter tornare a spingere per l’estradizione, il primo ministro turco Binali Yildirim l’ha invocata subito nel suo discorso di congratulazioni a Donald Trump.

    Michael Flynn, generale pluridecorato che sembrava destinato a fare il vice di Trump e ora è divenuto consigliere per la Sicurezza Nazionale, ha scritto in un editoriale pubblicato sul quotidiano statunitense The Hill che Gulen rappresenta per la Turchia quello che Bin Laden rappresentava per gli Stati Uniti. E che non restituirlo costituirebbe un errore di valutazione simile a quello che il mondo fece con Khomeini nel 1979: illudersi che fosse un predicatore innocuo.

    “Con Obama e la Clinton il movimento gulenista ha avuto una grande libertà di azione negli Stati Uniti, ogni tre o quattro mesi fanno plenarie in Pennsylvania con emissari che arrivano da tutto il mondo alla corte di Gulen”, spiega a TPI Michelangelo Guida, professore italo-turco.

    Otto anni passati in un’università gulenista di Istanbul, alcuni familiari arrestati nelle recenti purghe, Guida sa di cosa parla: “ad Ankara basterebbe che tagliassero l’approvvigionamento di visti agli accoliti di Gulen, l’estradizione vorrebbe dire portarsi in casa un altro oppositore importante dopo Ocalan”.

    Ocalan, il leader del gruppo armato autonomista Pkk rinchiuso nella prigione di Imrali dal 1999, rimanda alla seconda parola chiave per spiegare il trumpismo del governo turco, “curdi”. E quindi alla terza, “Siria”.

    L’amministrazione Obama-Clinton, restia a lasciarsi coinvolgere direttamente in Medio Oriente, ha sostenuto copiosamente i curdo-siriani dell’Unità di protezione popolare (Ypg) a partire dall’assedio di Kobane alla fine del 2014.

    Le armi affidate al Ypg per combattere l’Isis sono spesso e volentieri finite nelle mani del Pkk, che da decenni porta avanti una serrata guerriglia nel sud-est della Turchia. Le due organizzazioni sono infatti strettamente legate.

    La volontà di Trump di affrontare di petto il problema dell’Isis, riallineandosi in parte con la linea filo-Assad della Russia, va in questo senso a genio ad Ankara, che spera in un’interruzione del sostegno al Ypg.

    La Turchia è tradizionalmente legata alle opposizioni della rivolta siriana, portatrice com’era di un islamismo democratico che anche le primavere arabe avrebbero dovuto sposare, ma ora il terrore di una consolidata sovranità curda nella Siria settentrionale potrebbe spingere anche Ankara più vicino ad Assad.

    “Abbiamo incontrato dei parlamentari dell’Akp vicini al presidente che erano appena rientrati da Damasco insieme ad una delegazione del Mit (i servizi segreti turchi, ndr)”, dice un’alta diplomatica occidentale ad Ankara.

    “Gli uomini di Assad hanno chiesto, banalmente: che vi abbiamo fatto? È subito emerso che dietro ad una rivalità antica si nasconde una comunanza d’interessi”. E conclude: “È troppo presto per vedere sui giornali una foto di Erdogan affianco ad Assad, ma questa è la direzione in cui stiamo andando. E sicuramente riflette la politica di Trump molto più di quella che sarebbe stata della Clinton”.

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