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    Così l’Africa vuole imbavagliare le ong: il rapporto di Freedom House

    Credit: Afp
    Di Antonella Sinopoli
    Pubblicato il 17 Mag. 2019 alle 12:45 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:47

    Ong Africa rapporto Freedom House | Rapporti difficili, a volte assai tesi quelli tra gli Stati africani e le ONG. Il punto di questa controversa relazione sta in 24 pagine del rapporto appena pubblicato da Freedom House.

    Un rapporto che sintetizza situazioni in atto da tempo. Parte dal 2004 l’analisi contenuta in “Freedom under threat: the spread of anti-NGO measures in Africa” (Libertà sotto minaccia: la diffusione di misure anti-ONG in Africa), che mostra una situazione tesa soprattutto nel Nord Africa e in Africa orientale.

    Negli ultimi 15 anni sono 12 i Paesi africani che hanno adottato legislazioni o politiche tese a vincolare organizzazioni non governative. Si tratta del Sudan, Rwanda, Etiopia, Zambia, Tunisia, Algeria, Sud Sudan, Uganda, Sierra Leone, Egitto, Burundi e Tanzania.

    Altri, come il Malawi e il Mozambico hanno in sospeso misure che potrebbero però essere introdotte, mentre misure analoghe sono state respinte dagli esecutivi di altri Paesi; Kenya, Nigeria, Congo- Brazzaville, Angola e Zimbabwe. In sostanza – ha spiegato il relatore del documento – tali leggi e politiche mirano al controllo dello Stato sulla società civile, in particolare le ONG che lavorano sui diritti umani e sui problemi relativi alla governance.

    Insomma il tentativo è, o sarebbe, quello di liberarsi da occhi indiscreti e critiche che poi raggiungono sedi internazionali. Non è un caso che questo atteggiamento si stia intensificando negli ultimi anni, caratterizzati da contrazioni negli apparati democratici e nell’esercizio delle libertà fondamentali.

    Ong Africa rapporto Freedom House | Le misure messe in atto dagli stati

    Le misure e restrizioni messe in atto dai Governi per frenare il lavoro delle ONG vanno da onerosi requisiti di registrazione, soggetti a ampia discrezionalità burocratica, all’esclusione di finanziamenti esteri per le attività; dalle limitazioni nell’assunzione di personale al divieto di accesso ad aree in cui sarebbe invece necessario fare verifiche, fino alla vera e propria ingerenza – con personale dello Stato – negli affari interni delle ONG. Uno dei casi è quello dell’Etiopia, che dal 2009 con il famigerato CSP (Charities and Societies Proclamation), ha fortemente limitato il lavoro delle ONG internazionali.

    Tale atto legislativo impedisce la presenza delle organizzazioni che indagano sui diritti umani e che ricevono più del 10% dei loro fondi da partner esteri. Ad essere sorvegliati sono soprattutto i giornalisti e collaboratori di ONG, soggetti dunque all’auto-censura, a intimidazioni o all’arresto.

    Numerose a questo proposito sono state in questi anni le denunce di Amnesty International e Human Rights Watch. Non è un caso che appena cambiato lo scenario politico – nel 2018 l’elezione di Sahle-Work Zewde, prima presidente donna e del primo ministro Abiy Ahmed – le organizzazioni della società civile abbiano redatto un proclama indirizzato, appunto, al Governo.

    Note sono le antipatie che l’ex presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe nutriva nei confronti delle organizzazioni non governative. Si sa meno, invece, di quanto sta accadendo in Malawi, dove è in corso una vera e propria battaglia legale tra il ministero di Genere (bambini, disabilità e welfare), che all’inizio del 2018 ha pubblicato nuove disposizioni sulle tassazioni per le ONG, e l’Alta Corte che tali disposizioni ha congelato su spinta della causa intentata dal Consiglio delle ONG del Paese.

    Pare però che il ministro abbia “sorvolato” sulla disposizione della Corte e anzi rilanciato con un disegno di legge che propone l’istituzione di un’Autorità di vigilanza sulle ONG.

    Controllata, naturalmente, dal Governo. In Zambia le ONG si sono rivolte addirittura all’ONU contro una vecchia (ma sempre in vigore) legge del 2009 che viola – sostengono gli esponenti della società civile – i diritti fondamentali, come la libertà di riunione e di associazione.

    In Tanzania sono in atto – da tempo – repressioni sui leader delle opposizioni, ma anche sui gruppi che sostengono i diritti LGBTI, cosa questa comune a molti altri Paesi africani.

    Le condizioni in cui lavorano le ONG in Mozambico sono tra le più restrittive e pericolose della regione. Molte sono state messe a tacere e i loro leader molestati, arrestati, rapiti o uccisi. Da citare – per quante riguarda altre aree del continente – l’Egitto e la Sierra Leone che recentemente (2017 e 2018) hanno messo in atto legislazioni che pongono grossi freni alle attività delle ONG.

    Limitare o ostacolare le attività delle ONG che si occupano di diritti umani fa parte – in Africa come altrove, sottolinea il report – di una più ampia strategia adottata dai regimi per restringere lo spazio democratico e prevenire sfide al dominio di leader che vogliono imporre la propria presenza.

    Una presenza che si vuole forte ed esclusiva. Insomma il concetto – e applicazione – dell’”African Big Man” sta invadendo tutto il mondo politico “nel contesto di un assalto globale alla democrazia che spesso sembra essere coordinato attraverso le frontiere” afferma Godfrey Musila, relatore del rapporto.

    Esiste una corrispondenza di ruoli da una parte all’altra dei continenti. Non a caso alcune misure adottate in Africa sono aderenti a quelle della Cina o della Russia, due attori globali molto influenti dal punto di vista economico e politico nei loro rapporti con i leader del continente.

    “I Governi antidemocratici africani non solo copiano e traggono ispirazione e consenso gli uni dagli altri, ma potrebbero trovare conforto nell’ombra della democrazia illiberale dei principali attori sulla scena globale”. Per combattere questa politica di pressioni e coercizioni le ONG stanno adottando strategie che vanno dalle attività di lobby, alle proteste, alle denunce vere e proprie. Ma non sarà certo una battaglia facile.

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