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    Israele demolisce l’ennesima comunità palestinese: l’occupazione illegale dei coloni ebrei continua indisturbata

    Di Maria Selene Clemente
    Pubblicato il 9 Set. 2019 alle 21:01 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:05

    Israele demolisce l’ennesima comunità palestinese in Cisgiordania: l’occupazione illegale dei coloni ebrei continua indisturbata

    Le autorità israeliane hanno demolito un’altra struttura palestinese in Area C, nella Cisgiordania occupata. Alla demolizione, avvenuta lo scorso 26 agosto, segue adesso l’arrivo di coloni ebrei (i settlers) e dunque, probabilmente a breve, l’occupazione di altra terra palestinese nella forma di un’altra colonia ebraica.

    Demolire, ricostruire, demolire, occupare. É questo il corpo del sistema di occupazione militare israeliano che si nutre di nuovi outpost per crescere, guadagnare terra e proseguire in quella che lo storico Ilan Pappé definì come l’opera di pulizia etnica della Palestina. Gli outpost, colonie ebraiche, sono in realtà ancora meglio noti come settlement dichiarati tuttavia illegali dagli Accordi di Oslo del 1993. Non potendo da quel momento in poi più parlare di settlement, Israele aggirò il diritto interno e internazionale iniziando a costruire, appunto, outpost.

    Ma la sostanza è rimasta la stessa: avamposti costruiti su alture palestinesi confiscate, in cui i coloni ortodossi non pagano praticamente tasse e vivono in comunità autosufficienti, fortificate e militarmente protette. Per farsi un’idea, secondo i dati rilasciati dall’organizzazione israeliana Peace Now il numero di settlement pre-Oslo nella Cisgiordania occupata (esclusa Gerusalemme Est) ammonta a 132 unità, a cui si sommano i 113- più uno probabilmente- outpost, post-Oslo, illegali ma di fatto in espansione nel territorio occupato palestinese.

    Demolire, ricostruire, demolire, occupare. Questa volta è capitato al Makhrour, un piccolo ristorante situato su una delle poche vallate palestinesi ancora verdi, ancora libere, che lascia adesso sfollata una comunità di 30 persone (dati OCHA).

    “Imagine your home and your family business gone in one day”, ha detto il proprietario del locale. Ecco, immaginiamolo perché in Palestina, in Area C, è ordinaria amministrazione. Il Makhrour è infatti ben noto alla comunità locale e internazionale presente sul territorio, non solo perché situato nei pressi del check point militare “dei tunnel”, quello che tramite una strada sterilizzata (resa cioè non percorribile alla maggioranza dei Palestinesi) collega, o meglio separa, Betlemme da Gerusalemme, ma anche perché già demolito tre volte negli anni passati.

    Il ristorante, come molte altre strutture palestinesi, è stato demolito perché privo dei necessari permessi israeliani di costruzione in Area C, che corrisponde a circa il 60% della Cisgiordania occupata. In Area C, è l’autorità israeliana ad esercitare pieno controllo amministrativo sul territorio e a garantire quindi la concessione di permessi di costruzione a palestinesi e israeliani. Da qui, una situazione di estrema asimmetria e disparità, in cui non solo per i palestinesi è quasi impossibile ottenere permessi per costruire ma, in molti casi, si vedono anche privati dei diritti di proprietà che possedevano prima dell’occupazione militare o della definizione della stessa Area C.

    Secondo i dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari OCHA, nel 2019 sono 387 le strutture palestinesi demolite, 502 il numero di sfollati. Questa è una delle ragioni per cui dovremmo sottrarci dall’inganno della retorica dei “due Stati per due popoli”. Perché la popolazione palestinese abita oggi una terra frammentata, murata, occupata; sottratta delle proprie risorse, priva di strade, violata nei suoi diritti; incapace dunque di farsi Stato, demolita persino nello spirito. Il riconoscimento effettivo di uno Stato di Palestina sarebbe semmai, alle condizioni attuali, una sconfitta; il mero riconoscimento di una manciata di agglomerati, enclaves, a maggioranza demografica palestinese in un più grande Stato Israeliano, ebraico. A noi dunque, la responsabilità di continuare a guardare, non senza indignazione e sofferenza, perché il rischio è che ciò che non vediamo non esista.

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