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    Nigeria, torturare per crescere

    Al fine di avviare un vero sviluppo economico, le autorità nigeriane sono determinate a stroncare il terrorismo radicato nel Paese. Con ogni mezzo

    Di Stefano Rizzato
    Pubblicato il 15 Nov. 2012 alle 21:30 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:03

    Nigeria torturare per crescere

    Liberarsi del terrorismo per far decollare l’economia. Ma a costo di torture, detenzioni illegali ed esecuzioni sommarie. L’ultimo rapporto di Amnesty International scuote la Nigeria. Nel Paese che punta a diventare la prima potenza africana, la lotta al gruppo armato islamico Boko Haram ha portato a una lunga serie di violazioni dei diritti umani. Secondo l’Ong, sono centinaia le persone detenute in condizioni disumane, tra stazioni di polizia e campi di concentramento improvvisati, con l’accusa di far parte o essere sostenitori della banda terrorista.

    Nonostante si sia vista negare l’accesso ad alcune strutture detentive, Amnesty è riuscita a intervistare diversi ex detenuti, che hanno parlato di percosse con cavi elettrici e di prigionieri lasciati per giorni senza cibo né acqua. Le violazioni più gravi si sarebbero consumate a Maiduguri, città di oltre un milione di abitanti nell’estremo nordest del Paese. Considerata una roccaforte di Boko Haram, Maiduguri ha assistito lo scorso 2 novembre a una nuova e cruenta operazione da parte dell’esercito, che avrebbe lasciato dietro di sé decine di vittime. “È stato come in un film”, ha raccontato un testimone all’agenzia Afp, “i militari prelevavano giovani dalle loro case e li giustiziavano sul posto. Mai visto nulla di simile”.

    Secondo l’Associated Press, gli attacchi di Boko Haram – che tradotto letteralmente significa ‘L’educazione occidentale è peccato’ – hanno causato almeno 720 morti da inizio anno, che si aggiungono ai 450 del 2011. L’obiettivo del gruppo islamico è sradicare ogni tipo d’influenza occidentale nel nord della Nigeria e fondare uno Stato islamico. La reazione del governo ha avuto come unico effetto quello di alimentare gli scontri. E ora anche le polemiche. “La Nigeria e il suo popolo”, si legge nel rapporto di Amnesty, “sono oggi intrappolati in una spirale di violenza”. Il Paese, il più popoloso del continente africano, era già diviso a metà, tra un nord in prevalenza musulmano e le regioni meridionali di religione cristiana. Il terrorismo islamico, insieme alle rappresaglie dei cristiani, sta accentuando questa spaccatura e rappresenta la principale zavorra per l’economia nigeriana.

    I dati raccontano di una nazione pronta a essere leader del progresso africano già in atto. Entro il 2025, secondo un pronostico di Morgan Stanley, la Nigeria sarebbe destinata a superare il Sudafrica e a diventare la prima economia del continente. Grazie soprattutto al petrolio – di cui la Nigeria è l’ottavo esportatore al mondo – il Pil nazionale è cresciuto, in media, del 6,8 per cento annuo dal 2006 a oggi. E con quasi 9 miliardi di dollari arrivati dall’estero nel 2011, la Nigeria ha raccolto da sola un quinto degli investimenti stranieri in Africa. Il 1 ottobre, parlando alla nazione per il 52esimo anniversario dell’indipendenza, il presidente Goodluck Jonathan ha passato in rassegna con orgoglio tutti questi motivi di ottimismo. La ferita e l’incognita del terrorismo resta però aperta e non può che spaventare gli investitori internazionali. Basti pensare che per difendere i propri impianti e il personale in Nigeria la compagnia petrolifera Shell ha speso oltre 380 milioni di dollari tra il 2007 e il 2009. Quasi il 40 per cento di quanto la multinazionale ha stanziato per la sicurezza a livello globale.

    Riappacificare il Paese sembra l’unico modo per non far scappare gli investitori altrove e tentare di proseguire sulla strada dello sviluppo. I tentativi di dialogo con Boko Haram, finora, sono tutti falliti. A gennaio Abubakar Shekau, leader del gruppo islamico, aveva inviato un video-messaggio, in tenuta da battaglia e con un paio di kalashnikov sullo sfondo, in cui dichiarava guerra ai cristiani e alle istituzioni. Il 1 novembre, a dieci mesi di distanza, l’organizzazione si è dichiarata invece disposta a un cessate il fuoco. L’ha annunciato Abu Mohammed Ibn Abdulaziz, presentatosi come portavoce dell’organizzazione. Parlando insolitamente in inglese, Ibn Abdulaziz ha posto come condizioni per la fine delle ostilità l’immediata sospensione delle operazioni militari nel nord del Paese e l’avvio di negoziati in Arabia Saudita, Paese scelto come territorio neutrale.

    Tra i negoziatori, Boko Haram ha indicato anche Muhammadu Buhari, ex generale musulmano che fu capo di Stato per circa due anni dopo il golpe militare del 1983. Il presidente Jonathan, tramite un portavoce, s’è subito dichiarato disponibile ad avviare le trattative. Il governo starebbe insistendo affinché ai negoziati partecipasse anche Abubakar Shekau: la sua autorevolezza come capo spirituale di Boko Haram sembra l’unico modo per dare efficacia a un eventuale accordo. La strada verso il dialogo resta tuttavia molto ripida e gli attentati continuano. Nella notte tra il 3 e il 4 novembre una stazione di polizia, una scuola e due torri per le telecomunicazioni sono state date alle fiamme a Fika, nel nordest della Nigeria. A poche ore dall’annuncio del possibile cessate il fuoco, è forse il più chiaro segnale di cosa la ‘base’ del movimento pensi del dialogo. E di quanto sarà difficile uscire dal vortice di violenza.

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