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    “Nel Nagorno-Karabakh si sta consumando l’ultimo capitolo del genocidio armeno”. Intervista allo scrittore italo-armeno Pietro Kuciukian

    La cattedrale di Ghazanchetsots a Shushi, distrutta dai bombardamenti (credit: David Ghahramanyan). A destra, lo scrittore Pietro Kuciukian.
    Di Mimmo Lombezzi
    Pubblicato il 12 Ott. 2020 alle 08:10 Aggiornato il 12 Ott. 2020 alle 12:30

     

    La rete rilancia le immagini di una chiesa bombardata colma di calcinacci. È la cattedrale di Sushi, la città distrutta dagli Azeri nel 1920, le cui “Quarantamila finestre morte” furono cantate anche da Osip Mande’stam. Nei giorni scorsi, 80 anni dopo, il tetto della la cattedrale è stato sfondato da due bombe. Nel 2007 , prima della guerra , la “cattedrale del santo salvatore” , veniva descritta così nel libro Il giardino di tenebra, viaggio in Nagorno-Karabakh: “ È una delle più grandi dell’Armenia: lunga 35 metri, larga 23 e alta 35, ubicata al centro della città, domina tutti gli edifici, l’altipiano e la valle del Karkar. La costruzione è del 1858. Durante il periodo del controllo turco, iniziato nel 1920, quando furono espulsi o massacrati 35mila armeni e 7mila case armene furono date alle fiamme, la cattedrale fu adibita a diversi usi: granaio, garage, e “santabarbara” fino al 1992″.

    L’autore del testo, il medico Pietro Kuciukian, ha speso gran parte dei suoi 85 anni a girare il Caucaso, cercando le tracce della diaspora e della cultura armena. Il prodotto di questi viaggi, fatti tutti in motocicletta insieme alla moglie, è una serie di libri-reportage che si divorano dalla prima all’ultima pagina. “Il bombardamento della cattedrale – dice Kuciukian a TPI – è un fatto molto grave perché, di solito, anche in guerra il luoghi sacri vengono risparmiati. È una dissacrazione per noi e per il mondo intero. A Sushi, quando la città venne distrutta nella primavera del 1920, vennero ingaggiati dei macellai che muniti di grembiuli di cuoio, sgozzavano gli armeni, uno ad uno, con un rituale vagamente ‘islamico’. Sino al 1992, quando forze armene la liberarono, Sushi, che è su una collina quasi inespugnabile, veniva usata dagli Azeri per bombardare Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh”.

    Kuciukian è un grande reporter, perché la sua scrittura non ha nulla di cerebrale o di “partigiano”. Quando racconta le città azere svuotate dall’offensiva armena, o le violenze di quella che è anche una guerra civile, c’è lo stesso dolore, la stessa costernazione che emerge dalla descrizione delle chiese armene distrutte o dei khachkar, i cippi funebri, usati dai turchi come materiale da costruzione. “Si resta perplessi – scrive Kuciukian – di fronte alla contraddizione fra l’orgoglio degli armeni del Karabakh di aver combattuto per costruire un paese e il loro inquieto riserbo sull’esodo degli azeri e le tracce lasciate nella loro fuga precipitosa, che non sono state né cancellate, né salvate. Sembra esserci una sorta di difficoltà da parte degli armeni a ridare vita ai luoghi dove è stata fatta terra bruciata”.

    In un passaggio, alcuni armeni gli raccontano la storia del villaggio di Melidè: “Il villaggio che avete superato si chiamava Melidè, era abitato da curdi… I nostri soldati, un giorno prima di conquistare Shushi sono arrivati qui, hanno minato e abbattuto il ponte di ferro intimando ai curdi di unirsi a loro o di arrendersi. I curdi musulmani hanno preferito abbandonare le loro case e i nostri li hanno lasciati andare con le loro armi”. “Come mai il villaggio è vuoto?”, chiedo. “Gli islamici non tornano mai nelle loro case se sono distrutte, mentre ritornano sempre se rimangono in piedi e non violate dagli infedeli; così i nostri hanno sigillato porte e finestre, hanno aperto i rubinetti del gas, e hanno dato fuoco. Una per una, tutte sono saltate in aria. Noi abbiamo costruito il nostro nuovo villaggio, Melikashen, vicino al convento. Siamo una cinquantina, tutti di Yerevan, veniamo dal quartiere di Nor Adjar, pionieri trasferiti qui per ripopolare la zona. Ci hanno dato la casa, una mucca, due pecore e non paghiamo tasse. A Yerevan non c’è lavoro”.

    La scrittura di Kuciukian evoca il flusso tumultuoso dell’Aras o del Terek, i fiumi del Caucaso che videro le gesta dei cosacchi, ma oggi Pietro riconosce che il racconto è stato, oltre che una testimonianza, anche una terapia per uscire dal gorgo della memoria che assedia i figli dei salvati, quando pensano ai sommersi. “ Oltre che in Armenia e nel Nagorno-Karabakh – dice – sono stato in Siria, in Iran, in israele, in Turchia e in Georgia, ovunque gli armeni hanno fondato delle comunità, anche prospere, e poi sono scomparsi. Cosa cerco fra monasteri e città fantasma ? Cerco un po’ di me stesso e della storia di mio padre. Come tutti i sopravvissuti parlava poco del genocidio. Nel 1915 aveva 12 anni. L’hanno messo su una nave a Costantinopoli ed è stato mandato a Venezia dove i padri mechitaristi l’hanno fatto studiare. Mia moglie, che insegna storia e filosofia, gli propose di scrivere le sue memorie, ma lui non fece in tempo perché morì quando aveva appena iniziato. In un testo parla della famiglia, all’epoca dei pogrom scatenati dal sultano Abdul Hamid a Istambul nel 1895. Bande di curdi , armati di mazze chiodate massacrarono 6mila armeni, saccheggiando le loro case e stuprando le loro donne. La famiglia di mio padre si nascose in cantina e lui racconta che per 10 giorni dovettero dissetarsi con la loro urina. Si salvarono perché sulla porta c’era un turco, loro amico, che tenne a bada gli assassini, dichiarando che in quella casa non c’erano armeni. Ecco perché io dopo tanti anni, invece che continuare a raccontare queste violenze – un mio amico che insegna alla Sorbona mi disse : ‘se vai avanti così impazzirai’ – ho scoperto la ricerca dei Giusti cioè di quei turchi, curdi o azeri , che hanno aiutato gli armeni”.

    “Così ho scritto I disobbedienti: le storie di cittadini ottomani, turchi, curdi o azeri che hanno aiutato gli armeni disobbedendo agli ordini genocidi dei loro governi”. Nel 1992, per il TG5, filmai in Nagorno-Karabakh il primo tank armeno che aveva tentato di risalire la collina che portava a Sushi. Era stato bruciato da un razzo insieme a tutto l’equipaggio, e qualcuno aveva lasciato quattro rose rosse sulla carcassa combusta e sui resti dei soldati. Nella città conquistata, i civili armeni in festa, spaccavano le balconate della moschea bombardata per farne legna da ardere. Con Piero Panzeri, il cameramen, restammo bloccati per quasi due settimane, perché un’elicottero MI8, come quello che ci aveva portato nell’enclave partendo dall’Armenia e attraversando il territorio azero, era stato abbattuto e tutti i voli erano stati sospesi. Già allora la guerra era difficilissima per gli armeni, che, in 250mila, combattevano contro 7 milioni di azeri e in quel momento le truppe di Baku stavano per stagliare in due il Karabakh. Sulla strada di Stepanakert, filmammo un gruppo di civili armati che, in preda al panico, saltavano su un blindato per correre al fronte. Gli abbracci delle donne in lacrime più che un saluto sembravano un addio ma, oggi, questa ultima fase di una guerra trentennale appare ancora più pericolosa”.

    “Questa fase è stata preparata – dice Kuciukian – Già nel 2016 c’è stato un attacco che però è stato respinto dagli armeni, ma da quel momento è entrata in campo la Turchia. Qualche mese fa c’è stata una esercitazione congiunta turco-azera, proprio in vista di questa offensiva. La Turchia è in un momento di grande espansione, sia verso ovest che verso est, e ora approfitta del ritiro parziale delle grandi potenze. La pandemia, inoltre, ha offerto agli azeri una grande occasione per questa offensiva, perché, in questo momento, l’Armenia è chiusa e ha enormi difficoltà con i rifornimenti sia via terra che per via aerea”.

    La Russia ha sempre aiutato l’Armenia. Furono armi russe quelle che permisero di liberare Sushi. Gli chiedo se oggi Putin proteggerà gli armeni. “In base a un vecchio patto di mutua assistenza Putin è pronto a proteggere l’Armenia, ma non il Nagorno-Karabakh, che è una repubblica autoproclamata non riconosciuta internazionalmente neppure dall’Armenia”. Oggi le terre conquistate dagli armeni sono quasi il doppio dell’estensione del Nagorno-Karabakh, gli armeni sarebbero pronti a restituirle con una soluzione “israeliana” del tipo: pace in cambio dei territori? “È quello che gli armeni propongono da 20 anni, chiedono una forza di interposizione sui confini del Nagorno-Karabakh che impedisca una nuova invasione, ma né l’Onu né la Russia sono interessate a schierarla”.

    Gli domando allora se c’è il rischio di un nuovo genocidio. “Sì, perché negli ultimi anni è montato un odio, una armenofobia enorme. Tre anni fa l’ex-presidente armeno e Aljev il presidente azero avevano quasi sottoscritto un trattato per abbassare i toni dell’odio inter-etnico , ma recentemente Aljev è arrivato a dire: ‘Tutti gli armeni del mondo sono nostri nemici!’, e ora questo odio viscerale, trasmesso anche attraverso le scuole e le istituzioni, potrebbe produrre un’altra catastrofe. A Stepanakert, a 2.279 chilometri da Gerusalemme, si celebra l’ultimo dei paradossi della storia: il popolo sopravvissuto al primo genocidio del ‘900 , quello armeno, viene massacrato con armi prodotte dal popolo che subì il secondo genocidio del ‘900: la Shoah”.

    “L’8 di ottobre – continua Kuciukian – sul sito della Comunità Ebraica di Milano è apparso questo appello firmato da diversi intellettuali da Gabriele Nissim allo storico israeliano Benny Morris: ‘È con sgomento che affrontiamo la questione della vendita di armi israeliane all’Azerbaigian negli ultimi anni, che fa parte del massiccio processo di armamento del Paese. Chiediamo al governo israeliano di cessare immediatamente le vendite di armi all’Azerbaigian, in attesa di una revisione della questione a livello del governo e della Knesset. Le questioni di aspirante Realpolitik, come si vede in questo caso con la vendita di armi, non sono l’unica base della politica estera. Certamente, è necessario mettere in discussione il ruolo di Israele nella creazione di un armamento diretto principalmente contro un popolo che, come lo stesso popolo ebraico, è stato vittima di un genocidio nel XX secolo. Chiediamo ad altri israeliani di far sentire la loro voce su questa importante questione’”.

    “Questo appello mette al centro una delle più gravi contraddizioni morali che attraversa Israele e che è stata posta da numerosi intellettuali negli ultimi anni. In nome degli interessi nazionali, negli ultimi anni, Israele non ha mai riconosciuto il genocidio armeno, per non mettere in crisi i rapporti con la Turchia. Allo stesso modo vanno letti oggi i rapporti militari con l’Azerbaigian, che viene considerato uno stato cuscinetto di fronte alla minaccia dell’Iran. Le questioni morali sono più importanti della Realpolitik. Un Paese che chiede al mondo di non dimenticare l’Olocausto dovrebbe essere il primo al mondo a ricordare il genocidio armeno”, conclude lo scrittore.

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