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    In Myanmar l’esercito sta massacrando gli oppositori, ma le Nazioni Unite non intervengono

    Credit: Ansa foto
    Di Giulio Alibrandi
    Pubblicato il 30 Mar. 2021 alle 10:22

    In  Myanmar l’esercito sta massacrando gli oppositori, ma le Nazioni Unite non intervengono

    A quasi due mesi dal colpo di stato in Myanmar continua la dura repressione degli oppositori da parte dell’esercito, finora costata centinaia di vittime e culminata lo scorso sabato 27 marzo con l’uccisione di oltre 100 persone in tutto il paese, nonostante le parole di sdegno e di ferma condanna espresse a più riprese dalla comunità internazionale.

    “Le parole non bastano”, ha dichiarato il relatore speciale delle Nazioni Unite per il Myanmar, Tom Andrews, chiedendo risposte concrete alle uccisioni e agli abusi perpetrati dall’esercito del Myanmar, noto come Tatmadaw, a seguito il golpe del 1° febbraio in cui sono stati arrestati i leader della Lega nazionale per la democrazia (NLD) che aveva vinto le elezioni di novembre 2020.

    In una nota pubblicata dopo il massacro avvenuto nella giornata nazionale dedicata alle forze armate, Andrews ha accusato alcuni membri della comunità internazionale di stare dalla parte della giunta militare che “usa armi di guerra contro la sua stessa popolazione”, mentre “altri copia-incollano parole di condanna o preoccupazione. Alcuni offrono azioni isolate e diluite. Altri rimangono in silenzio”.

    Anche Amnesty International ha puntato il dito contro la passività a livello internazionale, chiedendo di imporre un embargo sulla vendita delle armi da parte delle Nazioni Unite e sanzioni sui vertici militari.

    “Queste orribili uccisioni mostrano ancora una volta il disprezzo sfacciato dei generali per la pressione inadeguata esercitata finora dalla comunità internazionale”, ha detto Ming Yu Hah vice direttore regionale dell’organizzazione umanitaria per le campagne. “Il costo dell’inazione internazionale viene misurato in vittime”, ha aggiunto.

    Nel solo giorno di sabato le forze armate hanno ucciso almeno 107 persone in 44 centri in tutto il paese, mentre a Naypyidaw una parata militare celebrava l’anniversario dell’inizio della resistenza all’occupazione giapponese nel 1945. All’evento, il capo del Tatmadaw, il generale Min Aung Hlaing, ha promesso di proteggere la democrazia denunciando anche “atti violenti”. Nella serata di venerdì, la televisione di stato aveva avvertito che i manifestanti “rischiano di essere colpiti alla testa e alla schiena”. Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, centinaia di persone sono rimaste ferite e sono state arrestate negli attacchi e migliaia sono state arrestate arbitrariamente, molte delle quali sono state sottoposte a sparizione forzata. Tra le vittime risultano anche 7 bambini. La stampa locale riporta che a Mandalay un uomo sarebbe stato bruciato vivo dai soldati.

    In otto settimane dall’inizio del colpo di stato, il bilancio è adesso di almeno 464 civili uccisi, secondo il gruppo Assistance Association for Political Prisoners con sede in Thailandia.

    L’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha detto che sabato, il giorno più sanguinoso dal colpo di stato, è stato segnato da “orrore e vergogna”, promettendo altre sanzioni. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito l’attacco “assolutamente atroce” mentre il segretario di Stato Anthony Blinken ha affermato che l’amministrazione è rimasta “inorridita dallo spargimento di sangue perpetrato dalle forze di sicurezza del paese.

    Anche i capi di Stato maggiore di Australia, Canada, Germania, Grecia, Italia, Giappone, Danimarca, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Regno Unito e Stati Uniti, in una nota congiunta hanno condannato l’uso della forza “contro persone disarmate”.

    La scorsa settimana l’Unione Europea, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno imposto sanzioni contro esponenti del regime, misure che senza il sostegno di Russia e Cina non potranno essere approvate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che si riunirà mercoledì 31 marzo. Entrambi i paesi hanno inviato rappresentanti alla parata di sabato, in cui erano presenti anche inviati di India, Pakistan, Bangladesh, Laos, Thailandia. L’unico membro di un governo straniero presente, il viceministro della Difesa russo Alexander Fomin, venerdì è stato premiato direttamente da Min Aung Hlaing, che ha definito la Russia “una vera amica”.

    Il colpo di stato

    Il 1° febbraio l’esercito del Myanmar ha deposto il governo della Lega nazionale per la democrazia (NLD) dopo mesi di polemiche seguite alla vittoria nelle elezioni parlamentari dello scorso novembre, in cui il partito aveva conquistato l’84 percento dei seggi, nonostante la commissione elettorale avesse respinto le accuse di brogli e irregolarità.

    Prima dell’apertura della sessione del nuovo parlamento che avrebbe dovuto confermare i risultati, l’esercito ha arrestato figure di spicco del governo e delle forze che lo sostengono come il presidente Win Myint, sostituito dal vicepresidente Myint Swe, e la leader della NLD e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Finora più di 3.000 tra esponenti della politica, della società civile e attivisti risultano essere stati arrestati dalle forze armate.

    Le violenze in Myanmar non stanno coinvolgendo solo i sostenitori della NLD ma anche le numerose minoranze etniche che popolano il paese e gruppi armati che combattono il Tatmadaw da decenni. Secondo quanto riportato da un gruppo di attivisti, negli ultimi giorni circa 3.000 persone sono fuggite in Thailandia dallo stato Karen, in Myanmar sudorientale, a seguito di raid aerei contro un’area controllata dal gruppo armato Karen National Union. Secondo il gruppo Free Burma Rangers, citato da Reuters, 2.009 persone sono state finora costrette a tornare in Myanmar.

    Aung San Suu Kyi

    Figlia del generale che ha fondato il Tatmadaw e protagonista della lotta per la democrazia in Myanmar, Aung San Suu Kyi era già stata arrestata in precedenza alle prime elezioni libere del paese, vinte dal suo partito nel 1990, trascorrendo 15 dei successivi 21 anni agli arresti.

    Il suo rilascio nel 2010 ha coinciso con un periodo di apertura che ha portato alla fine di 49 anni di governo militare. Negli anni successivi, Aung San Suu Kyi ha svolto un ruolo di primo piano nella politica del paese nel ruolo di consigliere di Stato, una posizione creata ad hoc simile a quella di primo ministro.

    La gestione della crisi dei rifugiati della minoranza musulmana rohingya, che ha visto più di un milione fuggire in Bangladesh, ha esposto la vincitrice del premio Nobel per la pace e il suo governo all’accusa di crimini umanitari, spingendo diverse organizzazioni umanitarie a revocare riconoscimenti che le erano stati conferiti negli anni della detenzione. Tuttavia, come hanno confermato le elezioni dello scorso novembre, Aung San Suu Kyi rimane ancora estremamente popolare tra la maggioranza buddista del paese.

    Dopo il colpo di stato è stata posta agli arresti domiciliari a Naypyitaw per essere poi trasferita in una località segreta. L’ultima apparizione pubblica risale al 1° marzo in collegamento video durante un’udienza in cui è stata accusata del possesso di walkie-talkie illegali e di violazioni alle restrizioni introdotte per la pandemia durante la campagna elettorale dello scorso anno, quando avrebbe preso parte ad appuntamenti elettorali troppo affollati, oltre alla pubblicazione di informazioni che possano “causare paura o allarme”.

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