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    Moonlight: il Boyhood nero che potrebbe battere La La Land agli Oscar

    Il film di Barry Jenkins offre senza fare sconti uno spaccato devastante della vita di un giovane afroamericano, dall'infanzia all'età adulta

    Di Guglielmo Latini
    Pubblicato il 16 Feb. 2017 alle 12:16 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 01:57

    Ricordate Boyhood, il film di Richard Linklater che nel 2014 aveva commosso gli spettatori di tutto il mondo? In quel caso, la scelta coraggiosa del regista era stata quella di raccontare alcuni episodi della vita di un “normale” ragazzo texano dai sei ai diciotto anni, interpretato da un solo attore che aveva recitato le varie fasi della sua crescita nel corso di undici anni reali.

    Il bambino, poi diventato adolescente, cresceva da genitori divorziati e in condizioni economiche non troppo favorevoli. Il film ne esplorava il carattere taciturno e riflessivo, mentre il ragazzo cercava come poteva di trovare la sua strada in un ambiente che sentiva poco affine.

    Guardando Moonlight, di Barry Jenkins – che esce nei cinema italiani giovedì 16 febbraio ed è candidato a otto Oscar, tra cui quello per il miglior film – è facile che torni alla mente il film di Linklater di tre anni fa, ed è altrettanto facile notare le evidenti differenze, che spingono a interrogarsi sul concetto di “normalità” riferito alla vita di un ragazzo americano.

    La differenza più evidente, poiché immediatamente visibile, risiede nel fatto che Chiron, il bambino che viene seguito dai dieci ai trent’anni in alcuni momenti cruciali della sua crescita, è nero.

    Se questo fosse solo un attributo epidermico non si tratterebbe di una differenza da segnalare, ma nel caso del protagonista di Moonlight, l’appartenenza alla comunità afroamericana fa parte di una condizione molto più ampia di svantaggio e disagio, che coinvolge anche il suo essere figlio di una madre tossicodipendente, privo di padre, abitante di un quartiere degradato, e, non da ultimo, gay.

    Lo scenario, dagli anni Novanta a oggi, è quello di Miami, ma anche per quanto riguarda lo sfondo urbano il regista Barry Jenkins ha deliberatamente scelto di mostrare solo il lato dimenticato della città, quello senza Ferrari e cocktail party che, da Miami Vice al videogioco GTA-Vice City, più di una generazione ha associato alla città balneare della Florida.

    Qui la droga non è la cocaina edonistica di Scarface, ma il crack che consuma i figli del ghetto, e i protagonisti non sono i bianchi e i latinos dalle camicie sgargianti, ma solo ed esclusivamente afroamericani nati dal lato sbagliato del paradiso.

    Chiron è un bambino timido e taciturno in un ambiente che dalla prima scena si mostra troppo duro e ostile per la sua fragilità, dove gli amici sono pressoché inesistenti. La figura materna – interpretata da una bravissima e lacerante Naomie Harris – lo vede solo come un fardello, troppo pesante per lei che a stento sopravvive al crack. Il padre assente è sostituito da uno spacciatore locale, Juan – l’attore Mahershala Ali, il lobbista di House of Cards – che lo prende sotto la sua ala protettrice.

    La fragilità di Chiron non si affievolisce nel tempo, semmai si amplifica per ogni corazza protettiva, per ogni maschera che il bambino, poi ragazzo e uomo – interpretato da altri due attori, entrambi bravissimi – deve indossare per sopravvivere in un ambiente che lo vede come una presenza estranea e curiosa, al cui silenzio indecifrabile l’unica reazione possibile è la violenza. 

    In questo scenario di desolazione, dove sembra impossibile una qualche forma di interazione positiva tra Chiron e il luogo in cui ha avuto il destino di nascere, un barlume di speranza è quello offerto da Kevin, un compagno di scuola che – senza voler svelare troppo della trama – offre al protagonista la fugace e sorprendente sensazione di essere compreso, accettato e forse amato.

    Ma il film, quasi sadicamente, è lì a ricordarci che le norme e le convinzioni della comunità, in una società come quella statunitense in cui i concetti di virilità, di negritudine e di rispettabilità sociale sembrano scolpiti in forme intoccabili, lasciano poco spazio a chi voglia essere se stesso senza mentire costantemente a se stesso e agli altri.

    Quello che va imputato a Moonlight è forse una ricerca dell’eccesso e del rigore a tutti i costi sia in ambito narrativo che stilistico. Da un lato i tanti motivi di disagio di Chiron sembrano quasi caricaturali nella loro quantità, in una desolazione che sembra volutamente estrema. Dall’altro, anche il ritmo della storia sceglie di far soffrire lo spettatore con cadenze lente, ricche di silenzi e di scene che con il loro iperrealismo vogliono rendere l’atmosfera ancora più asfissiante. Infine, la scelta di un personaggio principale così chiuso in se stesso è a volte snervante, rendendo difficile un’identificazione forte.

    Se però durante la visione del film queste scelte rigorose lo rendono quasi insostenibile nella sua chiusura nei confronti dello spettatore, che sembra ricalcare quella dei suoi protagonisti, è indubbio che dopo aver camminato con loro passo dopo passo nelle loro diverse incarnazioni ed età, i personaggi faticano a svanire dalla mente, rendendolo un film difficile ma anche difficilmente dimenticabile.

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