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    Chi è Mnangagwa, il “coccodrillo” diventato presidente dello Zimbabwe

    Sostenitori di Emmerson Mnangagwa ad Harare. Credit: Jekesai NJIKIZANA

    Personaggio controverso e a tratti spietato, il prossimo presidente del paese africano si è guadagnato negli anni il soprannome di "coccodrillo" per il suo coinvolgimento nelle violenze contro i rivali politici e l'opposizione

    Di Laura Melissari
    Pubblicato il 23 Nov. 2017 alle 18:53 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 16:15

    Emmerson Mnangagwa è diventato il nuovo presidente dello Zimbabwe il 24 novembre 2017. Fino al 6 novembre 2017 ne era stato il vicepresidente, ma una serie di eventi tumultuosi hanno fatto sì che in meno di un mese, in un clima di confusione e incertezza, passasse dall’essere destituito dal presidente Mugabe perché accusato di slealtà, a diventare lui stesso presidente, dopo il colpo di stato dell’esercito del 15 novembre.

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    Mnangagwa ha 75 anni e dal 1980 ricopre ruoli politici in Zimbabwe, da ministro a deputato fino a vicepresidente.

    Era uno dei candidati alla successione di Mugabe, ma questo lo ha portato prima al conflitto con la moglie del presidente, Grace Mugabe, e poi al licenziamento.

    Costretto ad abbandonare il paese il 6 novembre scorso, è rientrato due settimane dopo da “vincitore”, pronto per prendere il potere, dopo 37 anni di dominio incontrastato di Mugabe.

    Mnangagwa, che ha stretti legami con l’esercito e le forze di sicurezza, giurerà da presidente venerdì 24 novembre.

    Alla folla che lo acclamava ad Harare ha detto: “Oggi assistiamo all’inizio di una nuova e compiuta democrazia nel nostro paese”.

    Il prossimo presidente del paese africano si è guadagnato negli anni il soprannome di “coccodrillo”.

    I suoi critici lo descrivono come uno spietato criminale, artefice del clima di violenza sponsorizzata dallo stato che ha caratterizzato a più riprese la vita del paese. Come presidente potrebbe rivelarsi altrettanto autoritario del suo predecessore e mentore, Robert Mugabe.

    Chiunque sperasse che una presidenza Mnangagwa possa porre fine delle violazioni dei diritti umani nello Zimbabwe, potrebbe doversi ricredere. I suoi critici dicono che il 75enne ha il “sangue sulle mani”.

    Le dimissioni di Mugabe non significano necessariamente più democrazia, sostengono infatti molti analisti, sebbene Mugabe abbia governato lo Zimbabwe senza avere una vera e propria opposizione dall’indipendenza nel 1980, diventando il capo di stato più anziano del mondo.

    Leggi anche: Chi è Robert Mugabe, il presidente dello Zimbabwe che si paragona a Gesù e a Hitler

    L’inizio dell’impegno politico di Mnangagwa risale alla guerra civile scoppiata nel 1983 tra il partito Zanu di Robert Mugabe e il partito Zapu di Joshua Nkomo, in cui migliaia di cittadini furono uccisi. L’ex delfino di Mugabe ha negato qualsiasi ruolo nei massacri, incolpando l’esercito. È da sempre visto come il collegamento chiave tra militari, agenzie di intelligence e partito.

    Quando Mugabe l’ha licenziato e accusato pubblicamente di “tradimento”, i suoi sostenitori nelle forze di sicurezza sono intervenuti. Il capo dell’esercito, Constantino Chiwenga, l’uomo del colpo di stato del 15 novembre, è un suo stretto alleato.

    “Quando si tratta di proteggere la nostra rivoluzione, i militari non esitano a intervenire”, aveva avvertito.

    Mnangagwa è nato nella regione centrale dello Zvishavane e proviene dal sottogruppo Karanga della comunità Shona, l’etnia maggioritaria dello Zimbabwe.

    Da giovane fu addestrato militarmente in Cina e in Egitto, frequentando la Scuola di ideologia di Pechino, diretta dal Partito Comunista Cinese.

    Nel 1965 fu arrestato e condannato a 10 anni di carcere dal governo di minoranza bianca dell’ex Rhodesia (il nome dello Zimbabwe prima dell’indipendenza), quando la “banda dei coccodrilli”, della quale era a capo, fece esplodere un treno vicino Fort Victoria. Di quel periodo, Mnangagwa ha più volte raccontato le torture e i soprusi subiti.

    Nel 2008 fu il principale artefice della campagna di violenza contro l’opposizione, quando Mugabe perse il primo turno delle elezioni presidenziali contro il suo antico rivale, Morgan Tsvangirai. In quel periodo morirono centinaia di persone e migliaia furono costrette a fuggire dalle proprie case.

    Alla fine vinse Mugabe, venendo rieletto presidente. Mnangagwa non ammise mai il suo coinvolgimento.

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