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    Migranti, il trafficante libico Bija si difende: “Su di me i giornalisti italiani raccontano solo menzogne”

    Il libico al centro dell'inchiesta di Avvenire che mostra la collaborazione tra governo italiano e trafficanti replica alle accuse

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 16 Ott. 2019 alle 17:00 Aggiornato il 16 Ott. 2019 alle 22:25

    Il trafficante libico al Bija replica ad Avvenire dopo l’inchiesta

    “Sono stato offeso. Dire che ho nascosto la mia identità è una menzogna”, così al Bija, il libico al centro dell’inchiesta che mostra la collaborazione tra governo italiano e trafficanti libici per il contenimento dei migranti in Libia, in un’intervista ad Avvenire risponde alle accuse mosse dai giornalisti che negli anni hanno indagato sulla sua appartenenza a una rete criminale.

    In particolare, il 5 ottobre scorso Nello Scavo ha pubblicato sul quotidiano della Cei alcune immagini che ritraggono Bija insieme a funzionari italiani in un incontro organizzato a maggio 2017 presso il Cara di Mineo, in Sicilia, in cui l’uomo e i suoi soci avrebbero dovuto discutere un modello per la gestione dei flussi migratori.

    Eppure Abd al-Rahman al-Milad, conosciuto come al Bija, è accusato dalle Nazioni Unite di essere uno dei peggiori trafficanti di uomini in Libia, responsabile dell’annegamento di decine di persone al largo delle coste libiche e considerato il boss della zona di Zawyah, dove controlla un centro di detenzione in cui centinaia di migranti vengono torturati.

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    Quello che l’inchiesta di Scavo e le altre condotte in precedenza contestano al governo italiano, in quel periodo guidato dal premier Paolo Gentiloni, è di essersi accordati con i trafficanti libici, accusati dei crimini peggiori, per ridurre il numero di migranti che cercavano di raggiungere l’Europa passando per l’Italia.

    Secondo quanto riporta il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, un mese dopo l’atterraggio di Bija in Sicilia le partenze di profughi dalla Libia precipitarono ai minimi storici, con una riduzione superiore al 50 per cento per ogni mese. “Si passa dai circa 26mila di maggio (il vertice nel Cara di Mineo è dell’11 maggio) ai quasi 5mila di settembre”, ricorda Nello Scavo nella sua inchiesta.

    Tutti, inclusi i membri delle organizzazioni umanitarie che hanno assistito all’arrivo di Milad in Italia, conoscevano l’identità del trafficante, ma in Italia l’uomo è stato fatto arrivare in qualità di membro della guarda costiera libica, che il governo Gentiloni riconosceva in via ufficiale insieme alla relativa zona di ricerca e soccorso, affinché i salvataggi delle imbarcazioni di migranti avvenissero direttamente di fronte alle coste della Libia. Tre mesi prima l’allora ministro dell’Interno Minniti aveva firmato un memorandum con il governo di Al Sarraj che prevedeva appunto la cooperazione con la guardia costiera di Tripoli.

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    Ad agosto 2018 il “guardacoste” Bija avrebbe ricevuto una delle 12 motovedette che l’Italia ha concesso gratuitamente alla guardia costiera.

    Circa un mese prima il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva deciso l’imposizione di sanzioni contro di lui e contro gli altri membri di una “lista nera”, di cui fanno parte diversi colleghi del trafficante libico.

    Oggi Bija nell’intervista afferma che tutte le accuse contro di lui sono in realtà una “bugia”, e cioè di non essere un trafficante.

    “Bija è un bravo ragazzo, con un diploma dell’Accademia Navale. Ho giurato che avrei lottato per la patria e lo sto facendo”, dice, e afferma di essere giunto in Italia per “discutere di come fermare i flussi migratori”.

    Ad Avvenire Milad assicura di “continuare a lavorare per la patria”, dalla parte del governo Sarraj, sostenuto da quella stessa Onu che contro di lui ha varato sanzioni e che gli ha congelato i conti corrente nel 2018.

    “Sostiene di non avere mai smesso di contrastare l’immigrazione illegale, secondo gli accordi con l’Italia del 2008, stretti tra Berlusconi e Gheddafi e validi ancora adesso”, scrive Nello Scavo sul quotidiano della Cei.

    Bija accusa il giornalista che ha seguito l’inchiesta di aver “scritto menzogne”, lo minaccia di voler “aprire un caso per processarlo”, e mostra la foto di Nancy Porcia, giornalista freelance tra le prime a documentare l’ascesa di Bija – anche su TPI – che ritiene responsabile di aver “raccontato menzogne su di lui”.

    Dei suoi rapporti con gli altri trafficanti sanzionati dall’Onu Milad non vuole parlare.

    Tra questi, Mohamed Khushlaf, un multimilionario che controlla la raffineria di Zawiya, fonte di tutto il diesel esportato dalla Libia, che fornisce carburante ai trafficanti e gestisce un mercato di prostituzione dall’Africa sub-sahriana e dal Marocco. Alla fine della scorsa settimana Kachlaf ha inaugurato un moderno centro medico privato (convenzionato con il governo libico) costruito con proventi propri.

    “Per gli investigatori Onu è chiaro da dove vengano quei soldi”, scrive Scavo, e spiega che nella sua replica Bija ha fatto capire che, se i giornalisti italiani controllano lui, vale anche il contrario, e cioè che lui e la sua tribù tengono d’occhio loro.

    “Lascia la conversazione inviando un ritaglio da Avvenire del giugno scorso, quando una motovedetta di Zawyah prelevava il motore di un gommone dei trafficanti: ‘Anche questa è una bugia’”.

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