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    Il Grande Gioco del Medio Oriente post-americano

    Credit: AP Photo

    Gli Usa hanno passato gli ultimi 20 anni a combattere in Afghanistan, Iraq e Siria. Hanno speso seimila miliardi di dollari e destabilizzato la regione. Ma ora i leader arabi vogliono sostituire Washington con i suoi rivali. Allargando il campo a Cina, Russia, Turchia e India

    Di Almerico Bartoli
    Pubblicato il 10 Nov. 2023 alle 08:08 Aggiornato il 16 Nov. 2023 alle 17:23

    L’esercito degli Stati Uniti ha trascorso gli ultimi vent’anni a combattere in Medio Oriente. Dopo aver speso seimila miliardi di dollari e aver subìto un’umiliante disfatta sotto gli occhi del mondo, il ritiro delle sue truppe ha dato l’impressione ai leader arabi che gli Usa siano una tigre di carta, di cui oggi possono fare a meno.

    La chiave della forza degli Stati Uniti è stata la loro capacità di dominare le tre regioni del mondo di maggiore importanza per la sicurezza e l’economia: l’Europa occidentale, l’Asia orientale e il Medio Oriente. Ma la storia insegna che quando una grande potenza diventa troppo forte, viene sconfitta dagli sforzi di bilanciamento delle sue potenze rivali.

    Fine dell’illusione
    Il sabato nero di Israele è stato un inizio e una fine per il Medio Oriente. Quello che è iniziato, in maniera quasi inesorabile, è la trasformazione di un conflitto in una vera e propria guerra dai contorni cruenti, costosi e angoscianti per l’imprevedibilità del suo corso e del suo esito. Quello che è finito è l’illusione che gli Stati Uniti possano uscire in breve tempo da una regione dove hanno rappresentato la potenza straniera dominante per l’ultimo mezzo secolo. L’amministrazione Biden ci ha provato, e non gli si può dare torto. Vent’anni di lotta al terrorismo e tentativi falliti di “nation building” in Afghanistan e in Iraq hanno avuto pesanti ricadute sulla società e la politica americana prosciugando il bilancio degli Stati Uniti – lo dimostra uno studio del 2019 condotto dalla Brown University, secondo cui gli interventi militari legati al post 11 settembre sono costati la cifra sbalorditiva di seimilaquattrocento miliardi dollari ai contribuenti.

    Negli affari internazionali la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, ma le strategie politiche devono essere giudicate in base alle loro conseguenze. Sin dagli anni Settanta la strategia degli Stati Uniti era stata quella di tenere Mosca fuori dal Medio Oriente. Ma l’invasione e l’occupazione catastrofica dell’Iraq si sono rivelate un invito per le altre potenze a entrare nella regione. Nel 2016, c’era una partnership petrolifera tra Arabia Saudita e Russia, il sostegno russo al regime iraniano e la presenza militare russa in Siria. In quell’anno, gli Stati Uniti avevano la scelta tra eleggere un candidato che fronteggiasse la Cina, Donald Trump, o uno che affrontasse la Russia, Hillary Clinton. Ora sono guidati da un presidente, Joe Biden, apparentemente disposto a sfidare contemporaneamente entrambi i giganti rivali, convinto che gli Usa possano essere sicuri solo in un mondo di Stati democratici con mentalità simili. Le caratteristiche manichee della politica estera americana, enunciata così chiaramente nella retorica di Bush, in fondo non sono mai scomparse.

    Guerre infinite
    Dopo l’11 settembre l’attenzione della politica americana in Medio Oriente si è spostata dal petrolio alla lotta al terrorismo, in quelle che verranno ricordate come le «endless wars», le guerre senza fine. Secondo l’ex presidente Usa George W. Bush, l’Iraq, insieme all’Iran e la Corea del Nord, faceva parte del cosiddetto «asse del male». Tuttavia, l’Iraq ricevette molta più attenzione rispetto a quei Paesi da parte dell’ex presidente, che ignorò gli avvisi del Consigliere nazionale Brent Scowcroft, secondo cui l’invasione avrebbe deviato risorse cruciali dalla lotta contro il terrorismo, e le informazioni dei servizi segreti che l’Iraq non aveva nulla a che fare con l’attacco dell’11 settembre.

    Sono passati esattamente vent’anni da quando, il 19 marzo 2003, gli Stati Uniti avviarono la massiccia invasione militare dell’Iraq – il secondo intervento armato in poco più di dieci anni nel Paese – dando inizio a un conflitto di otto anni che provocò la morte di oltre quattromila membri delle forze armate statunitensi e di centinaia di migliaia di iracheni. Secondo i dati delle Nazioni Unite, nel 2007 la guerra aveva provocato 4 milioni di rifugiati iracheni e il costo si aggirava intorno ai 1,7mila miliardi dollari, lasciando in eredità un sistema politico praticamente ingovernabile e sempre più divisioni interne. Non a caso, la disastrosa invasione è stata definita come la peggiore decisione nella storia della politica estera americana. 

    Durante la campagna elettorale del 2008, Obama promise di porre fine alla guerra, aggiungendo che gli Stati Uniti «sarebbero stati altrettanto cauti nel ritirarsi dall’Iraq quanto erano stati sconsiderati nell’entrarvi». Tre anni dopo, gli Stati Uniti ritirarono tutte le loro truppe tranne una manciata. Tuttavia, Obama scoprì presto quanto sarebbe stato difficile per gli Stati Uniti disimpegnarsi completamente dall’Iraq. Nel 2014, emerse una nuova minaccia alla sicurezza: il sedicente Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, noto come Isis. Mentre sempre più territori iracheni finivano sotto il controllo del sedicente Stato islamico e aumentavano gli atti terroristici di alto profilo, il gruppo divenne rapidamente una delle principali minacce alla sicurezza pubblica degli Usa. In risposta, Obama autorizzò con riluttanza gli attacchi aerei degli Stati Uniti e inviò un contingente di forze armate in Iraq. 

    Cinque anni dopo, il suo successore, il presidente Donald Trump, affermò che il gruppo era sull’orlo della sconfitta in Iraq e in Siria, sebbene alcuni funzionari della sicurezza statunitense sostengano che rimanga ancora una minaccia. Il presidente Donald Trump aveva annunciato la fine delle «endless wars» americane, ma ha finito per inviare più truppe sul terreno, incluso il loro ritorno in Arabia Saudita dopo che avevano lasciato il regno nel 2005. Oggi il personale militare americano è presente nella maggior parte dei Paesi del Medio Oriente, tra cui tutte le monarchie del Golfo, Iraq, Siria, Giordania e Turchia. Così Washington ha scoperto che entrare è facile, ma uscire sembra un’impresa impossibile.

    Nuove intese
    Dopo aver ereditato le conseguenze della precipitosa exit strategy dell’amministrazione Trump dalla regione, anche il presidente americano Joe Biden ha riconosciuto che gli intrecci degli Stati Uniti in Medio Oriente distoglievano l’attenzione del suo Paese da sfide più incombenti poste dal potere crescente di Cina e Russia – in declino ma ancora ostile. La Casa Bianca ha dovuto così ideare una strategia di uscita creativa, cercando di negoziare un nuovo equilibrio di potere in Medio Oriente che consentisse di ridurre la presenza e l’attenzione di Washington, garantendo al contempo che non fosse Pechino a riempire quel vuoto. Il tentativo storico di normalizzare le relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita attraverso gli Accordi di Abramo avrebbe garantito l’allineamento formale tra i due partner regionali più importanti di Washington contro il loro nemico comune, l’Iran, e di ancorare i sauditi al di fuori dell’orbita strategica cinese.

    In parallelo a questo sforzo, l’amministrazione ha cercato di ridurre le tensioni con l’Iran, l’avversario più temibile degli Stati Uniti in Medio Oriente. Dopo aver tentato invano di riattivare l’accordo nucleare del 2015 con la sua complessa rete di restrizioni e supervisione del programma iraniano, Washington ha adottato un piano B basato su compensi e intese informali. La speranza era che, in cambio di modesti incentivi economici, Teheran potesse essere persuaso a rallentare il lavoro sui suoi programmi nucleari e a rinunciare alle provocazioni nella regione. La fase uno è arrivata a settembre, con un accordo che ha liberato cinque americani ingiustamente detenuti nelle prigioni iraniane e ha dato a Teheran accesso a 6 miliardi di dollari di entrate petrolifere precedentemente bloccate, ed entrambe le parti erano pronte a sostenere ulteriori colloqui in Oman, con il sostegno della diplomazia e agevolati dalle esportazioni record di petrolio iraniano – rese possibili dal fatto che Washington ha evitato di applicare le proprie sanzioni anziché farle rispettare.

    Ma il tentativo di una rapida uscita dal Medio Oriente da parte di Biden aveva un punto debole: gli incentivi all’Iran, l’attore più destabilizzante sulla scena. Non era plausibile che intese informali e una modesta riduzione delle sanzioni sarebbero state sufficienti a placare la Repubblica Islamica e i suoi alleati, che hanno una profonda e collaudata comprensione dell’utilità di un’escalation nel promuovere i loro interessi strategici ed economici. I leader iraniani avevano ogni incentivo a cercare di ostacolare una svolta tra Israele e l’Arabia Saudita, in particolare una che avrebbe esteso le garanzie di sicurezza americane a Riad e consentito ai sauditi di sviluppare un programma di energia nucleare civile. Per quanto ambiziose possano essere le strategie politiche, questa lo era in particolar modo; se fosse riuscita, la genuina convergenza di interessi tra israeliani e sauditi – due dei principali attori della regione, che ha già generato una spinta tangibile verso una maggiore cooperazione bilaterale pubblica in materia di sicurezza ed economia – avrebbe potuto generare una nuova alleanza con un impatto realmente trasformativo sulla sicurezza e l’economia di tutto il Medio Oriente. 

    Futuro incerto
    Il distacco dell’America dal Medio Oriente fa parte di una strategia definita per spostare la sua attenzione verso la crescente rivalità con la Cina. Secondo gli analisti, non si tratta semplicemente di un ritorno alla posizione degli Stati Uniti prima dell’11 settembre; piuttosto, vogliono tornare all’approccio precedente al 1990 nella regione, che prevedeva una presenza militare minima e il ricorso ad alleati regionali per mantenere la pace. Prima dell’attuale conflitto, Biden era orgoglioso della capacità della sua amministrazione di resistere al pantano mediorientale che aveva intrappolato i suoi predecessori, Barack Obama e Donald Trump, mentre cercavano di spostarsi verso l’Asia.

    Nonostante i timori iniziali che un ritiro degli Stati Uniti avrebbe fatto precipitare la regione nel caos, molte persone in Medio Oriente oggi vedono nell’intervento occidentale un fattore destabilizzante, come ha insegnato la rapida dipartita delle truppe statunitensi e della coalizione Nato dall’Afghanistan. Il nuovo ordine, guidato da attori regionali e potenze esterne come Russia e Cina, potrebbe non allinearsi ai valori occidentali e può essere descritto come una pax autoritaria. Tuttavia rappresenta una forma distinta di ordine e non si può negare che negli ultimi anni il Medio Oriente abbia fatto progressi, come dimostrato dalla de-escalation del conflitto in Yemen, dal riavvicinamento – agevolato dalla Cina – tra Arabia Saudita e Iran, e dall’ascesa del principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman.

    Con il graduale ritiro degli Stati Uniti, negli ultimi anni altre potenze come India e Turchia, Russia e Cina hanno guadagnato maggiore influenza, ed è probabile che il futuro della regione sarà più multipolare di quanto gli Usa sperassero. Ma nonostante i problemi che hanno distolto la sua attenzione da questa zona infuocata del mondo, la recente escalation tra Israele e Palestina dimostra come il grande gioco del Medio Oriente trova sempre un modo di imporsi in cima alle agende dei presidenti americani.

    Il fallimento degli Accordi di Abramo
    Pur mantenendo diversi aspetti dell’approccio di “disengagement” dell’amministrazione Trump verso la regione, Joe Biden ha messo al centro della sua agenda nel mondo arabo l’espansione degli Accordi di Abramo. La Casa Bianca ha ingenuamente creduto di poter portare la Libia dentro l’accordo di normalizzazione con Israele, fallendo disastrosamente. Biden ha anche investito enormi sforzi diplomatici nel tentativo di coinvolgere l’Arabia Saudita – cosa che oggi nessuno immagina nel breve termine, considerate le evoluzioni in corso in Israele e in Palestina.

    Come ha scritto Sarah Leah Whitson, direttore di Democracy for the Arab World Now – l’agenzia no-profit fondata da Jamal Khashoggi, il giornalista saudita assassinato nel 2018 – «gli eventi recenti hanno messo in luce le gravi lacune della politica superficiale dell’amministrazione Biden per il Medio Oriente, che si illudeva di poter stabilire rapporti stretti con l’apartheid israeliano e le dittature regionali come se fosse una sorta di ricetta per la stabilità».

    Ciò che emerge è che purtroppo una pace duratura e la sicurezza per Israele non verranno da accordi diplomatici con Stati come gli Emirati Arabi Uniti, che non sono mai entrati in conflitto con Israele, ma può solo derivare da una soluzione duratura alla questione palestinese. Come con Israele, una delle premesse della politica estera degli Usa nel Medio Oriente è stata annientata nell’ultimo mese: che il conflitto israelo-palestinese poteva essere contenuto e che la regione poteva andare avanti lo stesso.

    Gli sforzi per seppellire la questione palestinese, basati sull’ipotesi infondata che la causa palestinese non interessasse più al mondo arabo, si sono rivelati estremamente errati, ma era una delle premesse della politica estera americana sotto Biden (e Trump). Gli Accordi di Abramo hanno ancora alcuni elementi positivi – la stabilizzazione delle relazioni tra Israele e Stati arabi chiave – ma per essere sostenibili, devono essere accompagnati da progressi genuini, non di facciata, sul campo. Intanto la rabbia verso gli Usa cresce in Medio Oriente.

    Manifestazioni su larga scala nelle grandi capitali, da Amman a Manama, da Sana’a a Baghdad, da Rabat a Beirut, testimoniano il sostegno diffuso che i palestinesi stanno ricevendo in tutto il mondo arabo. In risposta all’opinione pubblica nei rispettivi Paesi, i leader politici arabi non hanno altra scelta che condannare con forza Israele ed esprimere il loro sostegno alla causa palestinese. Ciascun governo arabo si trova ad affrontare circostanze leggermente diverse a causa delle differenze nelle relazioni con Usa e Israele.

    Tuttavia, le dinamiche in tutta la regione stanno mettendo pressione su ognuno di essi affinché si schierino a difesa dei palestinesi e, nella maggior parte dei casi, che si astengano dal criticare direttamente Hamas: è interessante notare come Riad, che solo alcune settimane flirtava con Israele, abbia definito gli israeliani «forze di occupazione» in risposta all’Operazione Tempesta al-Aqsa di Hamas del 7 ottobre.

    Gli Stati Uniti rimangono vicini economicamente al loro partner principale, l’Arabia Saudita, e rimangono alleati di Paesi come gli Emirati Arabi Uniti e Israele, ma stanno gradualmente indebolendo il loro sostegno. In futuro, potrebbero scegliere di ritirarsi completamente dalla regione, lasciandola a un futuro incerto senza il suo grande “guardiano”. Indipendentemente da ciò che accadrà, una cosa è certa: nel corso di quasi 100 anni di presenza nella regione, gli Stati Uniti hanno completamente trasformato il mondo politico ed economico del Medio Oriente.

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