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    Incatenati agli alberi e curati con esorcismi: la vita dei malati mentali “posseduti dai demoni” in Somaliland

    malati psichiatrici in Somaliland

    Incatenati agli alberi e curati con esorcismi: la disumana vita in Somaliland, dove si pensa che i malati mentali siano posseduti da demoni

    Di Irene Loddo
    Pubblicato il 26 Set. 2018 alle 11:13 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 16:13

    In Somaliland una famiglia su tre ha almeno un parente con disturbi psichiatrici. In una terra dove la medicina tradizionale è di gran lunga più diffusa della moderna assistenza sanitaria, i malati psichiatrici in Somaliland vengono incatenati, immersi in acque “curative” e sottoposti a preghiere, esorcismi e erbe miracolose. Gli sheikh, i vecchi saggi, sono consultati più dei medici professionisti.

    A dirlo è la Somaliland Mental Health Policy. In Somaliland ci sono più capre che persone: 13,2 milioni contro 11,1 milioni. 

    La conoscenza e l’amministrazione della Salute Mentale in Somaliland è considerata una tra le più povere al mondo e richiederebbe una più attenta considerazione da parte del Ministry of Health (MoH) e di ONG internazionali: la distribuzione e organizzazione dei servizi inerenti la salute mentale sono pochissimi, con funzioni sovrapposte, mal organizzati e soprattutto non subordinati al ministero della salute.

    Sono invece subordinati all’approvazione del MoH i Private Religious and Traditional Healing Centers. La medicina tradizionale è tenuta in debita considerazione nella pianificazione dei programmi sanitari dal momento che ha un sostegno popolare radicato nei valori culturali della comunità somala.

    La maggior parte della popolazione, fortemente credente (la Somalia ha il 98.9 per cento della popolazione musulmana, tra le più alte al mondo), ha una concezione molto spirituale della malattia.

    Molto spesso si pensa che i malati psichiatrici vengano impossessati da demoni detti Jiin: secondo la tradizione islamica i Jiin sono spiriti del mondo invisibile, abitato anche da demoni e angeli.

    Sono invisibili ma abitano il mondo degli umani, con la particolarità che loro possono vedere noi e noi non possiamo vedere loro.

    I jiin possono entrare direttamente dentro l’anima delle persone oppure usare maledizioni quali cayn, simile al malocchio e sixir, ovvero una stregoneria compiuta con l’aiuto del diavolo. Lo Sheikh è un anziano o un capo religioso che si occupa di esorcizzare le persone dai Jiin.

    Come afferma Massimiliano Reggi, Gruppo per le Relazioni Transculturali (GRT) Regional Representative: “La “scelta” stessa di intraprendere o meno un tentativo di cura con risorse mediche esterne è quindi vincolata alle dinamiche sociali locali all’interno delle quali la persona è in relazione con il proprio contesto. La possibilità di accesso a determinate risorse terapeutiche, così come la disponibilità di queste ultime, modifica anche la percezione della propria malattia e delle possibili strategie per farvi fronte”.

    I guardiani del Mental Health Department, tutti ex-pazienti, fanno tintinnare le chiavi dei cancelli d’entrata.

    Salam-Aleikum, Aleikum-Salam, Salam-Aleikum. All’interno del reparto di salute mentale dell’Hargeisa Group Hospital, Somaliland, la polvere si appiccica addosso così come l’odore di urina e panni umidi.

    Ci sono degli enormi cammelli che lenti deambulano nella sezione femminile. Lo staff ha siringhe in mano e parla velocemente. Qualche paziente si accalca intorno alla porta dell’ufficio principale.
    Ci avviamo nel salone dove si tiene il settimanale counseling familiare appena introdotto da GRT, in attesa di una stanza adibita a tele scopo. Pareti giallo-tisi e panche di legno.

    Paz(z)ienti, Parenti, Persone.

    Gli occhi azzurro cataratta del signore seduto sulla mia destra si muovono a piccoli scatti dietro la montatura nera. Tra le mani un pesante fazzoletto si avvicina ripetutamente alla bocca per zittire la tosse roca.

    Le linee profonde del volto nella pelle color pece hanno il centro in due enormi fossette nere ai lati delle guance. Camicia color salmone, pantalone color sabbia, Jordan nere e rosse. Koofiyad.

    “The most important thing is to make the community understand that the traditional method is not the right one”. Il grosso salone si ammutolisce. L’altro uomo sembra essere dell’alta borghesia, molto ordinato, incrocia le gambe e gesticola lentamente.

    I suoi occhiali senza montatura fanno pensare a qualcuno all’interno dell’amministrazione pubblica, della sanità: il viola dei suoi pantaloni sembra essere in contrasto con il colore della stanza e di chi ne è all’interno. Ha le idee ben chiare come solo la sua candida sclera.

    Poco lontano un giovane, possente ragazzo in divisa militare guarda fisso nel vuoto. Ha i gomiti appoggiati alle ginocchia, le dita delle mani intersecate tra loro: sembra ascoltare attentamente discorsi lontani. Si tocca spesso la cinghia di pelle a cui giornalmente attacca il suo AK-47, ora avvolta intorno alla spalla sinistra. A stento lo si sente respirare.

    Una donna indossa il niqab e gli occhi neri continuano a roteare tra le fessure del velo, anch’esso nero. Spaesata ascolta senza parlare. Non vuole raccontare la propria storia.

    Il reparto di salute mentale è stato inaugurato nel 1972 e, a seguito alla guerra civile che ha attanagliato la Somalia tra il 1982 e il 1991, i malati psichiatrici sono triplicati.

    L’attuale Repubblica del Somaliland, ex-protettorato britannico della Somalia, divenne indipendente dalla Gran Bretagna il 26 giugno 1960.

    In seguito all’indipendenza della colonia italiana della Somalia i due stati somali si fusero in un’unione volontaria, mai però ratificata dai rispettivi popoli. L’annessione era condannata sin dall’inizio: i due paesi avevano profonde differenze tribali, culturali, amministrative ed educative che ognuno aveva ereditato dai rispettivi governi coloniali precedenti.

    Queste differenze portarono a divisioni e dispute, culminate in una lunga guerra civile. La guerra distrusse il 95 per cento delle città del Somaliland, causò la morte di circa 250mila persone e un ulteriore milione di rifugiati.

    Abdirizak Baraco, responsabile dell’Hargeisa Group Hospital and Private Clinics, ha vissuto in prima persona la tragedia della guerra civile: “Ho rischiato di essere ucciso ben due volte, quando avevo 10 e 12 anni”, afferma sorridendo, “un soldato, nel bel mezzo della notte –  “AM!”, urla Abdirizak facendo rimbombare il salone – dopo aver fatto un’incursione improvvisa a casa della mia famiglia mi ha afferrato, trascinato nel bagno e ordinato di dargli tutto il denaro e l’oro che avevamo. Aveva una grossa pistola in mano. L’ho implorato di non uccidermi”.

    Bisogna sottolineare il fatto che in quegli anni la macro-guerra civile in Somaliland si è profondamente intrecciata ad altre dispute, a causa anche della sua particolare posizione geografica: risentendo la pressione della guerra dell’Ogaden (1977-1978), tra giugno e agosto 1982 la guerra di frontiera tra Etiopia e Somalia ebbe il suo culmine.

    Nel contempo, già dopo il colpo di stato del 1969 si era instaurato il regime totalitario di Siad Barre: il generale, che era visto dai suoi sostenitori come il nuovo e lungimirante leader politico che aveva saputo unire in modo rivoluzionario Islam e socialismo, perseguiva l’obbiettivo di ricostruire la Grande Somalia: cercò di sradicare completamente la società clanica (alla base tuttora della società somala) condannando a morte chiunque la promuovesse, fece in modo di espellere dal paese il personale militare dell’ambasciata statunitense di Mogadiscio e contemporaneamente non volle stringere rapporti con l’URSS.

    Il tentativo di equiparare a livello teorico principi islamici e marxismoleninisti atei provocò però, come comprensibile, tensioni con le autorità teologiche del paese.

    Nel luglio del 1990 Barre fece aprire il fuoco su una folla di manifestanti nello Stadio della capitale. Successivamente si sviluppò un movimento di liberazione somalo che venne violentemente represso dall’aviazione di Barre bombardando la città di Hargheisa nel gennaio 1991.

    Il conflitto degenerò rapidamente nella guerra civile di cui sopra (più di 50mila morti fra il 1988 e il 1990).

    “La maggior parte delle persone in Somaliland, escluse le nuovissime generazioni, sono Affected or Unaffected: ciò significa che o hanno vissuto in prima persona il dramma della guerra, oppure lo hanno trasversalmente vissuto tramite un proprio familiare. Se hai più di 20 anni tuo padre ha fatto sicuramente la guerra”, racconta Abdirizak.

    “Ricordo ancora chiaramente quando tutta la mia classe, alle elementari, si era unita per scrivere col gesso sulla lavagna SNM (Movimento Nazionale Somalo): volevamo la liberazione, volevamo che non si sganciassero più bombe sulle scuole o si torturassero le persone, volevamo la pace. Oltre alla stessa guerra civile, i problemi, quando ne siamo usciti, son stati molteplici; si sono susseguite tante altre micro-guerre civili tra clan di cui nessuno parla: ovviamente nessuno ci torturava più in maniera pesante, nessuno ci uccideva o ci minacciava con armi ma di fatto la tensione tra le grandi famiglie del Somaliland era palpabile, non c’era possibilità di occupazione lavorativa…e ancora non c’è!”, ride Abdirizak.

    “I ribelli, ad Hargeisa così come a Berbera e in altre città, continuavano a combattere tra di loro senza più capire per che cosa stessero combattendo. Stiamo combattendo per combattere sempre o stiamo combattendo per combattere un regime che è già caduto e iniziare ad avere una vita migliore? Il vero, profondo problema è che non ci è stata la volontà di una reale riabilitazione post-conflitto e post-indipendenza, non esistevano leggi a riguardo. Tutto sembrava in superficie essersi calmato ma io in realtà penso che fosse solo un momento di stallo il quale, forse, si protrae ancora, nonostante i piccoli miglioramenti che la società del Somaliland ha fatto in questi 25 anni di pace”, continua.

    “Ciò che a me preoccupa momentaneamente è l’aumento e il continuo abuso di qat in seguito a questa mancanza di riabilitazione e di occupazione lavorativa, abuso evidente e in crescita tra i più giovani. Ad Hargeisa il governo cerca di contenere l’abuso di questa droga legalizzata posizionando i baracchini verdi in cui gli uomini si ritrovano a masticare solo nelle zone del market. Di fatto sono ovunque nella città. Durante il governo di Siad Barre c’è stato un periodo in cui il qat venne proibito ma, io ricordo, fu il caos più totale”.

    Oggi i malati psichiatrici in Somaliland hanno dei macrogruppi di suddivisione. Vi sono coloro che subiscono la pratica dell’incatenamento per molti anni accusando, oltre al disturbo psichiatrico, anche quello legato all’incatenamento stesso.

    C’è poi chi ha disturbi da stress post traumatico a causa della guerra civile o a seguito di un lungo disperato viaggio verso l’Europa in cerca di condizioni di vita più umane, che ha portato alcuni pazienti ad attraversare la Libia e a subire torture dai trafficanti di uomini per poi essere rimpatriati.

    Infine, c’è il gruppo molto eterogeneo formato da tutti i pazienti che accusano disturbi legati all’abuso di Qat: la dipendenza da Qat si intreccia spesso ad altri eventi traumatici come la pratica dell’incatenamento.

    L’anziano signore allontana il fazzoletto dalla bocca: “Mio figlio è stato curato da me per più di vent’anni prima di entrare in questo ospedale. In seguito ai primi segni di squilibrio, in famiglia non si sapeva come migliorare la situazione, non avevamo idea si trattasse di una malattia, pensavamo fosse Jiin. Tutti in famiglia volevano incatenarlo tranne me: non lo trovavo umano, non pensavo che Allah volesse una cosa del genere per mio figlio”, racconta l’anziano.

    “Son stato costretto ad incatenarlo in una stanza, lui era estremamente risentito nei confronti di tutta la famiglia, si rifiutava di mangiare. Dopo tre anni, un giorno in preda ad una crisi, distrusse completamente lo spazio in cui era abituato a stare e non fu più possibile tenerlo all’interno dell’abitazione. Io stesso lo incatenai ad un albero poco lontano dalla porta di casa: ogni volta che pioveva, in questa terra così terribilmente desiderosa d’acqua, io ringraziavo Allah profondamente ma lo imploravo anche che smettesse di mandare la pioggia perché mio figlio era là fuori, incatenato, da solo, sotto la pioggia battente. Il mio cuore è rimasto incatenato con lui per 18 anni”, dice ancora.

    The most important thing is to make the community understand that the traditional method is not the right one: ero solo un bambino quando mio zio iniziò ad accusare i primi segni di squilibrio. Ricordo poco ma nella mia mente è impressa la sua violenza nei miei confronti e verso i miei cugini. Masticava qat tutto il giorno e ci picchiava: inizialmente si pensava fosse semplicemente un’affermazione di autorità ma successivamente iniziò a diventare violento con tutti i membri della famiglia, minacciandoli”, prosegue.

    “Dopo qualche anno cominciò a parlare da solo e a sognare la propria madre, nel contempo deceduta, cercando tutte le notti di andare a dormire nel suo letto, in una casa poco lontano dalla nostra. Dopo esserci rivolti ad un capo spirituale, decidemmo all’unanimità di seguire il consiglio dello Sheikh e di portare nostro zio a fare il bagno in un lago curativo fuori città. La situazione nei mesi successivi sembrò migliorare ma poi ricadde nel baratro più totale. Decidemmo allora di incatenarlo, senza dargli né cibo né acqua, come se fosse in prigione. Dopo averlo trovato più volte nel cuore della notte deambulare in diverse parti della città alla ricerca di qat ci rivolgemmo alle autorità che lo portarono qui, in questo ospedale. Solo qui io lo vedo migliorare e la cosa che io vorrei sottolineare è la mia attuale contrarietà al metodo tradizionale: è importante tenerlo in considerazione perché fa parte della nostra cultura e in certi casi funziona ma per la maggior parte delle persone non è così. Ne va a discapito delle famiglie: ora vorrei solo essere maggiormente informato delle condizioni di mio zio da parte dello staff dell’ospedale, ma so che qui è al sicuro da se stesso”, spiega. 

    Come risvegliandosi da un sogno il giovane solleva lo sguardo bianchissimo. Districando le dita: “Sono il fratello di un paziente. Mio fratello faceva il militare durante la guerra civile: venne colpito da una granata e ricoverato in una stanza d’ospedale dove aveva intorno solo persone in fin di vita. La granata gli aveva lesionato parte del cranio e aveva perso l’occhio e il braccio sinistro. Non essendoci i mezzi in Somaliland per curarlo o migliorare la sua situazione, insieme alla famiglia si decise di portarlo in Etiopia; anche negli ospedali etiopi non avevano attrezzature adeguate alla sua situazione. Quando ritornammo in Somaliland iniziò ad accusare i primi sintomi di schizofrenia”. Abbassa lo sguardo.

    Riesco finalmente ad alzarmi dalla sedia del salone. Il counseling room è terminato. Non riesco a togliermi dalla testa quegli occhi pieni di kajal nero dietro al nero niqab.

    “Mia sorella ha cercato di emigrare in Francia. Non è facile ottenere un passaporto in Somaliland, ha deciso così di cercare un’altra via. Non so cosa sia successo nel viaggio ma credo nulla di buono. Adesso è ossessionata dalla fuga: vuole sempre uscire, ovunque sia. Appena tornata ha ucciso il neonato di nostra sorella affogandolo in una bacinella piena d’acqua. Questo è il motivo del perché è qui”, racconta una donna.

    Massimiliano Reggi, che insieme al team di GRT ha realizzato diversi progetti volti ad aiutare i malati di mente e le loro famiglie, nonché a fornire loro migliori centri e istituzioni per la salute mentale, spiega: “L’ordine con cui si percorrono le possibilità di cura a disposizione può seguire inizialmente una logica eziologica, ma l’utilizzo di più risorse, come accade nella pratica, segue la logica della guarigione. Nel nostro contesto di ricerca, come in altri abitati da somali, non si trova nel corso degli itinerari alcuna incompatibilità tra intervento ‘locale’ o ‘tradizionale, e ‘straniero’ o ‘moderno’”. 

    “Il guaritore coranico è nella maggior parte dei casi il primo ad essere interpellato, ma ad esso fa seguito, quando l’efficacia percepita dell’intervento è debole, un altro Sheikh o Wadaado oppure un medico o un guaritore mingis. Quello che, ad ora, si può definire un percorso tipico che abbiamo osservato con maggiore frequenza in qualsiasi territorio somalo, è il circuito che dal guaritore coranico porta al medico, poi al guaritore e al medico ancora”, dice ancora Reggi.

    Ciò che il Somaliland Ministery of Health e GRT si propongono di ottenere con il loro comune progetto è migliorare la qualità e l’efficacia dei servizi di salute mentale e sfidare le norme sociali che perpetuano lo stigma e la discriminazione contro la salute mentale.

    Per fare ciò, il progetto mira a educare e sensibilizzare l’opinione pubblica e a sviluppare la capacità delle autorità locali di assumere un ruolo attivo nella supervisione delle parti interessate alla salute mentale.

    Il primo passo, però, è dar voce a chi è nato muto e restituirla a chi l’ha persa: questo l’obiettivo della neonata counseling room.

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