I numerosi fronti aperti dalla seconda amministrazione Trump, dalla politica estera a quella monetaria, passando per quella commerciale, stanno mettendo a nudo quelle che molti esperti vedono come contraddizioni nella condotta del governo statunitense, che riflettono a loro volta divisioni tra le fazioni che sostengono il trumpismo. Differenze che finora sono state appianate dalla figura di Trump, lasciando però aperti molti interrogativi sul futuro del suo approccio “populista” al conservatorismo a stelle e strisce.
Scontro interno
Uno dei fronti principali di questo conflitto è quello della politica antitrust. Quello che emerge da retroscena giornalistici e dichiarazioni pubbliche è uno scontro intenso tra una componente che intende continuare a perseguire i presunti monopoli in maniera aggressiva e chi vuole tornare a un atteggiamento più benevolo, tornando all’approccio che prevaleva durante le presidenze Bush ma anche Obama. Una questione che assume sempre più rilievo alla luce del nascente boom nelle fusioni e nelle acquisizioni, con un numero quest’anno di “mega-deal”, o accordi superiori a 10 miliardi di dollari, che si avvicina ai record storici. Questo senza considerare la trattativa più discussa del momento, ossia l’acquisizione di Warner Bros, in cui i due pretendenti, Netflix e Paramount, stanno cercando di contendersi anche il favore del presidente degli Stati Uniti, arrivando, nel caso di Paramount, a offrire garanzie su un cambio di linea a Cnn, l’emittente all-news che Trump vede come il fumo negli occhi.
In questa lotta interna al mondo Maga entrambi i lati della barricata sono popolati sia da veterani come l’ex stratega di Trump Steve Bannon, passato ora ai podcast, e l’ex consigliera del presidente statunitense Kellyanne Conway, diventata una lobbista e consulente, che da figure in ascesa, come l’assistente procuratore generale Gail Slater e l’avvocato e attivista Mike Davis.
La pietra dello scandalo?
Uno dei casi più emblematici è stato quello della fusione da 14 miliardi di dollari tra Hewlett Packard Enterprise e Juniper Networks. A gennaio 2025, pochi giorni dopo l’insediamento della nuova amministrazione, la divisione antitrust del dipartimento di Giustizia ha chiesto di bloccare l’operazione sostenendo che avrebbe «eliminato la concorrenza» tra due delle tre principali aziende nel settore delle reti wireless, «aumentato i prezzi» e «ridotto l’innovazione» e le alternative a disposizione per numerose «aziende e istituzioni americane». Si trattava del primo procedimento promosso sotto la nuova presidenza.
Prima ancora che il caso arrivasse in tribunale, a fine giugno il dipartimento è tornato sui suoi passi e ha raggiunto un accordo con Hewlett Packard Enterprise a condizioni ritenute estremamente favorevoli per la multinazionale texana. Un’inversione di marcia mal digerita all’interno all’interno della stessa divisione antitrust. Secondo quanto riportato dalla stampa statunitense diversi funzionari, inclusa la responsabile della divisione, Gail Slater, erano fortemente contrari all’accordo e avrebbero cercato di convincere la Casa bianca a respingere la proposta, senza però avere successo.
Per arrivare al traguardo Hewlett Packard Enterprise ha anche giocato la carta della sicurezza nazionale. Secondo quanto riportato da Axios, alcuni dirigenti dell’intelligence sono intervenuti per persuadere la procuratrice generale Pam Bondi, a capo dell’intero dipartimento di Giustizia, riguardo l’importanza della fusione, che avrebbe potuto aiutare le aziende statunitensi a competere con la cinese Huawei, evitando così che gli alleati scelgano di utilizzare tecnologia cinese.
Il caso ha portato alla rimozione di due importanti funzionari della divisione antitrust Roger Alford e Bill Rinner, che si erano opposti all’accordo. Alford ha parlato pubblicamente di una battaglia tra «riformatori Maga» e «lobbisti» per cui l’appartenenza al movimento è «solo una facciata», accusando le grandi aziende di assumere avvocati e lobbisti «per rafforzare le loro credenziali Maga e sovvertire il sistema tradizionale per far rispettare le leggi». La sua ex capa, Gail Slater, avrebbe intimato alle aziende di non interagire con l’amministrazione tramite lobbisti affiliati a Trump, alimentando ulteriori tensioni all’interno della divisione.
Tutti gli uomini del presidente
Un tema, quello dei lobbisti, emerso anche nel caso di Live Nation, colosso dei concerti che, secondo il dipartimento di Giustizia, controlla l’80 percento del mercato dei biglietti per le principali strutture in cui si tengono eventi. A marzo 2026 è previsto l’inizio del processo contro la multinazionale, accusata di aver applicato prezzi eccessivi ai clienti e di aver detenuto il monopolio dell’industria dell’intrattenimento dal vivo. Una vittoria del governo nel procedimento, ereditato dall’amministrazione Biden, comporterebbe quasi sicuramente lo spezzettamento dell’impresa, il che, a sua volta, aumenterebbe la concorrenza nel settore della biglietteria.
Per sventare questa eventualità l’azienda sta cercando quindi di arrivare a un patteggiamento. Uno sforzo che vede in prima linea Kellyanne Conway, ex consigliera di Trump durante il suo primo mandato ora consulente di Live Nation. In questa veste, secondo quanto riporta la testata conservatrice The Free Press, avrebbe incontrato esponenti di spicco del dipartimento di Giustizia per cercare di arrivare a un patteggiamento. La multinazionale con sede a Beverly Hills è seguita anche da un’altra figura molto vicina a Trump, l’avvocato Mike Davis, citato in passato tra i possibili candidati alla carica di procuratore generale (a capo quindi del dipartimento di Giustizia). Davis è accusato dai falchi dell’antitrust di aver chiesto la rimozione dei due funzionari dopo il patteggiamento con Hewlett Packard ed è stato accusato da Alford di essere tra le persone che sono «più che disposte a minare l’agenda populista antitrust del presidente».
A cena alla Casa bianca
Anche in un altro caso di alto profilo, come quello che ha contrapposto le autorità federali a Google, non sarebbero mancate le pressioni per arrivare a un accordo. In questo caso, secondo The Free Press, ci sono state tensioni tra Slater e il presidente del Consiglio economico nazionale, Kevin Hassett, principale consigliere economico di Trump. Secondo il primo sarebbe stato necessario arrivare a un patteggiamento anche con il colosso di Mountain View, una possibilità che la responsabile della divisione antitrust ha rigettato. Alla fine a decidere è stato il giudice che, al termine un procedimento istruito durante la prima amministrazione Trump, ha condannato Google, riconoscendo che aveva esercitato un monopolio nelle ricerche online. Una vittoria importante per il dipartimento di Giustizia, ma poco significativa, dal momento che la Corte si è limitata a condannare Google a condividere i dati con i concorrenti, senza costringerla a cedere il suo browser Chrome.
Dopo l’annuncio del verdetto, Trump ha invitato l’amministratore delegato di Google Sundar Pichai e altri dirigenti di Big tech a una cena alla Casa Bianca, in cui Pichai ha ringraziato il presidente per il «dialogo costruttivo» con la sua amministrazione in relazione al caso, mentre Trump gli ha assicurato che era stato Biden a intentare la causa. Una cordialità che non viene vista di buon occhio da molti esponenti del mondo Maga, che per anni hanno visto Google come il nemico della libertà di espressione e bastione delle sensibilità liberal all’interno della Silicon Valley.
Una goccia nell’oceano?
L’approccio dell’amministrazione Trump ha lasciato perplessi anche chi, durante la precedente amministrazione, aveva condiviso con alcuni falchi del Maga un approccio muscolare sulle questioni antitrust. Si tratta di Lina Khan, presidente della Federal Trade Commission durante l’amministrazione Biden, che ha espresso forti dubbi sull’accordo raggiunto dalla stessa agenzia con Amazon. Era stata proprio Khan da presidente della stessa Federal Trade Commission durante l’amministrazione Biden ad avviare il procedimento antitrust contro il gigante dell’e-commerce, accusato di aver ingannato i clienti per convincerli a iscriversi a Prime.
A settembre l’agenzia indipendente che si occupa anch’essa di far rispettare le leggi antitrust, ma in ambito civile, oltre a promuovere la tutela dei consumatori, ha annunciato di aver raggiunto un accordo con Amazon, che dovrà stanziare 1,5 miliardi di dollari per risarcire gli abbonati al suo servizio Prime, oltre a pagare 1 miliardo di dollari in sanzioni.
Una goccia nell’oceano per Amazon, anche se si tratta del secondo risarcimento di sempre per la Federal Trade Commission: i 2,5 miliardi totali che il colosso di Seattle dovrà sborsare corrispondono infatti a meno di un giorno e mezzo di ricavi. «La firma di questo accordo a pochi giorni dall’inizio del processo, dopo una serie di vittorie per la Federal Trade Commission e una volta che le risorse erano già state spese, solleva interrogativi concreti», ha affermato Khan, rilanciando i dubbi di un altro ex membro della commissione: «Quali pressioni ha esercitato la Casa Bianca sulla Federal Trade Commission per stipulare questo accordo? Quali comunicazioni ci sono state? Questa vicenda puzza»