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    Lettera da Gerusalemme

    A un certo punto sono suonate le sirene e ci siamo dovuti rifugiare nelle stanze di sicurezza mentre arrivava un razzo

    Di Fiamma Goretti
    Pubblicato il 15 Lug. 2014 alle 15:40 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:59

    Già dal mio primo giorno a Gerusalemme ho dovuto modificare il modo di muovermi e di vestirmi: Gerusalemme Est è la parte araba della città e per questo bisogna rispettare certe regole.

    Non potevo andare dove volevo, da sola. Non potevo andarci con un taxi qualsiasi, perchè non tutte le compagnie sono considerate sicure, o almeno così mi è stato detto alla Hebrew University; né con qualsiasi compagnia di autobus.

    A un certo punto ho smesso del tutto di prendere i mezzi pubblici, perché dopo aver sentito spari e sirene accanto alla mia finestra ho chiamato il Consolato italiano per sapere come spostarmi: niente trasporti pubblici, mi hanno detto, poiché sono i primi obiettivi degli attentati.

    Il primo giorno di lezione ci hanno mostrato una cartina della città, con zone ombreggiate che indicavano i settori più o meno sicuri. Mi è parso incredibile dal primo istante che realtà così diverse potessero coesistere, come se esistesse un muro invisibile che separava i quartieri a tal punto da poter compromettere o meno la propria sicurezza.

    Ogni giorno camminavo dal Monte degli Ulivi all’università e in quei dieci minuti sapevo di non essere del tutto al sicuro. Guardavo verso valle, alla parte araba della città, consapevole che il muretto costruito sulla cresta di quella collina rappresentava più di ogni altra cosa la divisione tra le due facce di Gerusalemme.

    Oggi più che mai appare strappata a metà e ferita, in un momento in cui omicidi e vendette hanno reso la coesistenza tra arabi e ebrei estremamente difficile. Il giorno in cui dovevo andare a Tel Aviv partendo dalla stazione dei bus in centro città hanno piazzato una bomba sul tram. Era quello su cui sarei dovuta salire.

    Controllavo continuamente gli aggiornamenti e le news, e quindi ho imparato a evitare la città vecchia. Quello stesso giorno avvenivano contemporaneamente tre eventi: il funerale del ragazzo palestinese Mohammed Hussein Abu Khudeir, ucciso da ignoti facinorosi come vendetta per i tre ragazzi israeliani rapiti e uccisi in Cisgiordania; lo Shabbat; e il primo venerdì di Ramadan.

    In pochi giorni, l’escalation ha fatto sì che l’università ci spiegasse le misure di sicurezza nel caso in cui razzi fossero stati lanciati da Gaza su Gerusalemme: ipotesi alquanto astratta, dicevano, poiché città sacra anche per i palestinesi. Ho deciso quindi di non andarmene.

    Quello è stato il pomeriggio in cui ho visto finalmente e per la prima volta la città vecchia, pervasa di una calma apparente. Il tour si è concluso con uno spettacolo di luci che mostrava la storia della città, con tutte le guerre e conquiste che l’hanno caratterizzata.

    Alla fine è apparsa una scritta in inglese, arabo e ebraico che diceva: “Pray for peace in Jerusalem”. Un’ora dopo sono suonate le sirene a Gerusalemme e ci siamo dovuti rifugiare nelle “stanze di sicurezza” mentre arrivava un razzo. È stato lì che ho deciso di lasciare questa città che non so se troverà mai la pace che cerca da migliaia di anni.

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