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    Lettera da Aleppo. La società civile che resiste alla catastrofe

    Anas, Muhammad, Rima e Yusuf sono alcune delle centinaia di persone che lavorano in silenzio per ricucire gli strappi della guerra civile nella città sotto assedio

    Di Lorenzo Trombetta con Good Morning Syria
    Pubblicato il 9 Dic. 2016 alle 07:40 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 17:57

    “Il freddo si mangia le persone”, pensa Anas mentre osserva un bambino che si agita sotto la coperta grigia accanto a mille altri sfollati di Aleppo est, assiepati al freddo in una ex fabbrica di cotone trasformata in centro di accoglienza fuori dalla città.

    Anas è un esponente della società civile locale che si è mobilitato appena sono arrivate le prime centinaia di famiglie in fuga dai quartieri orientali della città, martoriata dalla guerra. In cuor suo è ancora profondamente convinto della necessità di un cambiamento in Siria, come aveva chiesto insieme ai suoi concittadini nelle proteste del 2011.

    Anas sa bene quanto sia fallace la retorica governativa secondo cui chi scappa da Aleppo est “fugge dai terroristi”. Anche per questo, va in soccorso di quei disperati, per fargli capire che non li considera “scappati dalla morte”, per cercare di ricucire la profonda ferita che si è creata tra le due Aleppo.

    Con il sostegno dell’aviazione russa, il 25 novembre 2016 le forze lealiste – un’alleanza di governativi siriani, pasdaran iraniani, miliziani sciiti filoiraniani libanesi, iracheni, afghani, assieme ad altre milizie locali – hanno lanciato l’offensiva di terra per conquistare Aleppo est, dopo settimane di raid aerei.

    Il governo ha perso nell’estate del 2012 il controllo di questa, che è passata in mano a varie componenti dell’insurrezione anti governativa, direttamente e indirettamente sostenuta, fino ad alcuni mesi fa, da Turchia, Stati Uniti, Arabia Saudita e paesi del Golfo.

    Aleppo, fino al 2012 la città più popolata della Siria e motore dell’economia industriale del paese, è da tempo divisa in due: da una parte i quartieri orientali, storicamente più depressi dal punto di vista economico, controllati dai ribelli; dall’altra, i quartieri occidentali, tradizionalmente più benestanti, in mano ai lealisti, ma in parte circondati da campagne sotto il potere degli insorti.

    Tra i circa 20mila miliziani di Aleppo est, circa sei-settemila sono secondo l’Onu membri dell’ala siriana di al-Qaeda. È il dato che legittima agli occhi di Mosca, Teheran e Damasco l’intervento armato contro “il terrorismo”. Sempre secondo le Nazioni Unite, nei quartieri orientali di Aleppo, sotto assedio da parte dei lealisti, vivono ancora circa 250mila persone.

    Ampi strati della popolazione di questi rioni sono stati a lungo solidali con la rivolta anti regime scoppiata nel 2011. Seppure con enormi difficoltà dovute alla guerra in corso, le comunità presenti in città hanno tentato di dar vita a un’amministrazione civile alternativa e responsabile della gestione dei servizi di base nell’area “liberata”.

    L’offensiva in corso sta cancellando velocemente tutto questo. E i quartieri ribelli di Aleppo cadono uno dopo l’altro in mano ai lealisti, che nell’arco di una settimana hanno conquistato quasi interamente la zona orientale, lanciando l’attacco contro la città vecchia.

    Anas, tra i due fuochi di Aleppo

    “Finora abbiamo soccorso circa diecimila civili in fuga”, racconta Anas mentre cerca di individuare tra i numerosi bambini nel centro di accoglienza chi è rimasto senza vestiti invernali. “La realtà è che finora abbiamo potuto distribuire solo abiti per i più piccoli. Per gli adulti, non ci sono le taglie”.

    Secondo l’Onu, in meno di una settimana oltre trentamila civili si sono spostati da Aleppo est  in cerca di rifugio, scappando dall’offensiva lealista, dalla fame dal freddo. “Eccoli qui è tutto quello che hanno”, afferma Anas indicando il tappeto di coperte grigie. “La maggior parte sono donne e bimbi. Quasi tutti sono scappati solo con i vestiti che avevano addosso”.

    Il lavoro di Anas non è solo quello di distribuire aiuti a chi soffre. È da anni membro di una rete di attori della società di Aleppo impegnata ad allargare lo spazio del lavoro civile per creare le condizioni, a livello locale e dal basso, per una graduale ricomposizione del conflitto.

    La guerra in Siria è un sanguinoso braccio di ferro tra potenze internazionali e regionali. Ma è anche, prima di tutto, una lotta per il potere nazionale combattuta tra siriani. E uno scontro tra diverse comunità per il controllo delle risorse delle diverse aree del paese.

    Anas è cosciente di quanto i livelli del conflitto (internazionale-regionale, nazionale-locale) influiscano l’uno sull’altro e di come gli attori coinvolti nella guerra tentino di dividere le comunità locali su base confessionale (sciiti contro sunniti, cristiani minacciati da jihadisti) e socio-economica (braccianti delle periferie contro i padroni delle città).

    Proprio contro la crescente frammentazione siriana, Anas e i suoi colleghi di Aleppo sono da tempo in contatto con centinaia di altri siriani, giovani e meno giovani, attivisti e liberi professionisti – avvocati, ingegneri, medici, insegnanti – che lavorano in silenzio per tentare di ricucire gli strappi interni, per superare le trincee e i confini delle zone di influenza militare.

    Non sono degli angeli venuti da un altro pianeta. Né si sentono degli eroi. Sono persone normali, con tutte le contraddizioni e le debolezze di chi da cinque anni vede la propria vita sgretolarsi assieme a una città e al paese. Per questo, sono pieni di rabbia e sono profondamente delusi. Ma non vedono altra scelta che resistere, per un cambiamento dall’interno e senza armi.

    Nell’attuale contesto siriano, Anas e gli altri sono una ristretta minoranza. Si trovano stretti tra due fuochi. Anas vive e lavora ad Aleppo ovest. Per molti può essere giudicato come un “lealista”, come uno che “collabora col regime” solo perché respira l’aria di una zona controllata dalle forze governative. Così come rischia moltissimo – l’arresto, le torture, la vita – quando cerca di convincere i pochi interlocutori fidati che Aleppo est non è “infestata da terroristi mercenari venuti dall’estero”.

    Muhammad e l’acqua per tutti

    Muhammad è di Aleppo e ha 40 anni. Vive nei quartieri occidentali controllati dai lealisti. È un ingegnere della società idrica statale, controllata dal governo, che si è a lungo servita di funzionari che potevano recarsi ad Aleppo est quando era saldamente in mano agli insorti. Muhammad è uno dei protagonisti della società civile che, tramite il suo lavoro giornaliero, tenta di rimettere insieme pezzi della Siria divisa.

    Grazie ai suoi sforzi e a quelli dei suoi colleghi, nel corso del 2015 Muhammad era riuscito a convincere le parti armate – i lealisti e gli insorti – a non spararsi tra loro, per assicurare che l’acqua fosse distribuita nei quartieri orientali e occidentali. La stazione di pompaggio si trova a est, nel quartiere di Sulayman Halabi, all’epoca in mano ai ribelli. Ma dei tre condotti idrici, due servivano Aleppo ovest.

    Gli insorti e i governativi avevano a più riprese danneggiato la stazione idrica, contribuendo a lasciare alcune aree della città senza acqua e usando la sete come arma contro i nemici. Il gruppo di Muhammad ha persuaso gli armati delle due fazioni a far passare, da ovest a est, il combustibile necessario per far funzionare il pompaggio, e una squadra di tecnici che la potesse riparare e curarne la manutenzione.

    Per far questo, governativi e insorti hanno accettato temporaneamente di non colpire più la zona di Sulayman Halabi. Le comunità assetate delle due Aleppo hanno fatto pressione sulle rispettive autorità per l’accordo. Questo non sarebbe stato raggiunto senza la mediazione della società civile locale, che ha saputo parlare in nome della gente e avanzare richieste che andassero oltre il ripristino della distribuzione dell’acqua.

    Sulla base di questo scambio, i due schieramenti armati si sono parlati, hanno di fatto riconosciuto la legittimità dell’interlocutore, trovando una piattaforma comune per discutere.

    Rima, oltre le barriere che dividono la città

    Rima, 31 anni, era una dei volontari che da ovest, si recava a est, per distribuire le medicine. Originaria dei quartieri orientali, si è trasferita a ovest nel secondo anno della guerra, “quando era diventato sempre più difficile vivere sotto le bombe”. Anche Aleppo ovest è vittima della guerra: sui quartieri governativi piovono mortai e razzi sparati dagli insorti, ma la frequenza. l’intensità e l’impatto sulla popolazione civile di questi bombardamenti non è paragonabile ai raid aerei governativi e russi sull’altro lato della città.

    Fino al 2015, Rima si recava una volta a settimana nei quartieri orientali assieme a volontari della Mezzaluna rossa siriana per distribuire aiuti. Entravano la mattina e uscivano prima del tramonto, tramite il valico di Bustan al-Qasr.

    “Il lavoro umanitario è cruciale”, afferma Rima. “Non solo offre aiuto, ma consente di varcare le linee che dividono, di provare ad andare dall’altra parte, di raccogliere le percezioni dell’altro e di raccontare all’altro le proprie percezioni. Si consegna del cibo o delle medicine, ma si tenta di affrontare discorsi politici in modo che non ci si divida, in modo da gettare dei ponti oltre confine”.

    In uno delle missioni a est, Rima ha incontrato Yusuf.

    Il centro culturale di Yusuf

    Prima della rivolta e della conseguente guerra civile, Yusuf gestiva un negozio di cellulari ad Aleppo. Era sceso in strada nelle manifestazioni popolari del 2011. Mentre la sua città scivolava lentamente nel baratro, Yusuf, 29 anni, ha cominciato a fotografare e a vendere le foto ai media locali, arrivando a fare foto per agenzie di notizie internazionali.

    Ben presto Yusuf ha cominciato a detestare tutto quello che riguardava lo scontro armato, rendendosi conto della necessità di offrire un’alternativa ai bambini e a tutta la popolazione civile rimasta nei quartieri orientali “liberati”.

    Assieme ad alcuni amici, nel 2014, aveva avuto l’idea di trasformare un antico khan, un caravanserraglio della città vecchia, in un “centro culturale”, con lo spazio per una biblioteca, per convegni, per la proiezione di film, corsi di lingue e di computer, concerti musicali. Il khan era occupato da una milizia locale.

    Yusuf e i suoi compagni, già in contatto con i miliziani, sono riusciti non con pochi sforzi a convincere gli armati a liberare l’edificio. Il gruppo era entrato a far parte di una rete di attivisti civili, sparsi in tutta la Siria e sostenuti da progetti europei di sviluppo. Grazie a questo aiuto sono riusciti a far tornare vivibile il caravanserraglio e a trasformarlo nel tanto agognato centro culturale.

    Avevano così raggiunto tre obiettivi che andavano al di là dell’organizzazione di attività ricreative. Anzi, queste erano servite da pretesto per allontanare i miliziani da un luogo civile; per sottrarre i ragazzi del quartiere al lavaggio del cervello di formazioni armate estremiste; per far passare il messaggio – anche grazie al contatto tra il gruppo di Yusuf con i colleghi ad Aleppo ovest – che non tutti gli abitanti dei quartieri occidentali, controllati dal regime, sono a favore delle forze governative.

    L’esperienza del centro culturale è durata solo pochi mesi. Nel corso dell’offensiva di terra del 2015, un raid aereo governativo o russo ha centrato il khan vanificando lo sforzo di Yusuf e della sua squadra, distruggendo centinaia di libri che erano stati raccolti anche con l’aiuto della gente del luogo e spesso contro la volontà dei gruppi armati più radicali.

    In poche settimane di attività il centro aveva attratto diversi giovani di Aleppo est, offrendo loro un’alternativa alla disperazione e alle armi. Yusuf è poi dovuto scappare da Aleppo est e oggi è rifugiato in Turchia.

    Ma fino al novembre scorso, i suoi colleghi nei quartieri sotto assedio lavoravano ogni giorno per la creazione di un altro centro culturale. “Questa volta lo faremmo sotto terra, in modo che non potrà essere bombardato”.

    * * *

    “La gente ha ora altre priorità”, afferma Anas, nel contesto della fame e del freddo. “Ma l’azione civile deve continuare. Più decisa di prima”. Aleppo est si prepara a diventare un deserto semi distrutto, “bonificato dai terroristi”, come qualche giorno fa ha detto Hussein Diyab, governatore della città intervistato dall’agenzia di notizie governativa Sana.

    A partire dall’accoglienza ad Aleppo ovest delle decine di migliaia di sfollati giunti da Aleppo est. È in questo enorme hangar spoglio, tra le mille coperte grigie, che Anas e molti altri attori della società civile, cercano in silenzio di ricostruire la Siria: “Oggi, non domani. Qui, nel freddo di Aleppo. Non solo nei colloqui internazionali di Ginevra”.

    *Di Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa per il Medio Oriente basato a Beirut, con Good Morning Syria

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