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    Le fantasie monetarie dell’Isis

    La nuova moneta non può aiutare lo Stato Islamico a isolarsi dai mercati finanziari

    Di Giulio Alibrandi
    Pubblicato il 27 Nov. 2014 alle 20:38 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:58

    Lo scorso 13 novembre lo Stato Islamico ha annunciato che inizierà a stampare una moneta propria, il dinar.

    Dopo aver istituito tribunali, riattivato pozzi petroliferi e fondato un’agenzia per la protezione dei consumatori, il nuovo califfato guidato da Abu Bakr al-Baghdadi continua così a rivendicare la propria sovranità sui territori occupati negli ultimi mesi in Iraq e Siria.

    Il dinar fu introdotto originariamente sotto il califfato omayyade nel 696 d.C. e dovrebbe “emancipare i musulmani da un sistema economico globale basato sull’usura satanica”.

    La volontà, o la necessità, di isolarsi dai sistemi di pagamento internazionali ha spinto il gruppo islamista ad adottare un sistema monetario d’altri tempi, basato su metalli come oro, argento e rame.

    Una moneta da un dinar conterrebbe 4,25 grammi di oro a 21 carati, per un valore di circa 114 euro, mentre il dirham d’argento avrebbe un valore compreso tra 0,36 e 3,60 euro (a seconda del peso dell’argento impiegato).

    Ironicamente un’ipotetica economia califfale si troverebbe ancora più ostaggio dei diabolici mercati internazionali rispetto a qualsiasi altro Paese che si affidi a una banca centrale.

    PERCHÉ?
    Il sistema annunciato dal “dipartimento del Tesoro” dello Stato Islamico rimanda a epoche in cui il denaro conteneva metalli preziosi e aveva un valore intrinseco. Per molti versi la politica monetaria spesso passava anche per il saccheggio.

    I Paesi industrializzati hanno invece da tempo rimosso i legami delle proprie valute con ll’oro, per permettere una maggiore flessibilità nella gestione della politica economica.

    Sia l’euro che il dollaro, ad esempio, sono monete che non hanno alcun valore intrinseco e dipendono unicamente dalla fiducia che i cittadini hanno nella capacità dello Stato di imporre la loro accettazione.

    Un’entità come lo Stato Islamico, tuttavia, avrebbe molte difficoltà a imporre un sistema simile, se non altro perché gli Stati Uniti e altri diciannove Paesi hanno investito considerevoli risorse per assicurarsi la sua estinzione. In un contesto simile, il nuovo califfato non ha la possibilità di offrire le stesse garanzie di stabilità di una qualsiasi banca centrale.

    Una soluzione a questo problema è ricorrere all’oro e agli altri metalli affinché il dinar abbia valore e possa essere utilizzato, ad esempio, per un qualsiasi pagamento.

    Tuttavia l’utilizzo dei metalli preziosi risolve meno problemi di quanti effettivamente ne causi.

    Oro, argento e rame sono commodity (merci) scambiate sui mercati internazionali e negli ultimi anni hanno conosciuto fluttuazioni anche molto forti. Una moneta come il dinar renderebbe le regioni sotto il controllo dello Stato Islamico molto esposte a quello che succede nelle piazze finanziarie.

    Un apprezzamento dell’oro come quello avvenuto tra il 2008 e il 2012 (più del 140%) aumenterebbe anche il valore del dinar, che avrebbe così un potere d’acquisto più elevato. Questo è semplicemente un modo alternativo di definire la deflazione, un problema tanto grave da essere considerato una delle minacce principali all’Europa unita.

    Viceversa un crollo dei prezzi dei metalli, come ad esempio avvenuto negli ultimi due anni, causerebbe inflazione. Le manovre degli operatori finanziari avrebbero forti conseguenze sull’economia di un territorio che dovesse scegliere di adottare una moneta simile.

    La realtà è che difficilmente il dinar assumerà un ruolo poco più che simbolico nell’economia del califfato. Lo Stato Islamico oggi incassa più di un milione di euro al giorno grazie alla vendita del petrolio estratto nei pozzi occupati e intrattiene rapporti commerciali per acquistare armi e altre merci con controparti che desiderano essere remunerate con la moneta più sicura, fungibile e accettata di tutte: il tanto odiato dollaro.

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