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    L’Africa alle prese con il ‘land grabbing’

    I Paesi in via di sviluppo svendono milioni di ettari ogni anno a compagnie private straniere. Ma a farne le spese sono spesso le popolazioni locali

    Di Niclas Benni
    Pubblicato il 2 Gen. 2013 alle 18:12 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:01

    L’Africa alle prese con il land grabbing

    In Tanzania, a partire da gennaio 2013, l’affitto e la vendita di vaste estensioni di terreno verranno fortemente limitati. Questa nuova legge è uno dei primi atti da parte di uno Stato dell’Africa subsahariana contro quella che viene considerata una delle minacce più serie allo sviluppo del continente africano: il fenomeno del land grabbing.

    Attraverso questa pratica governi stranieri, multinazionali e fondi di investimento si impossessano di vastissime aree di terra fertile appartenente a Paesi in via di sviluppo, allo scopo di coltivare generi alimentari, mangimi, biocombustibili, o a fini semplicemente speculativi. La stragrande maggioranza dei prodotti coltivati vengono poi esportati all’estero, senza alcun beneficio per la popolazione locale. Le cifre attorno al fenomeno sono ovviamente molto difficili da stimare con certezza. Un report di Oxfam pubblicato a ottobre parla di 227 milioni di ettari venduti a livello globale nell’ultima decade, da governi di Paesi in via di sviluppo a investitori stranieri, con un 70 per cento dei casi concentrati in Africa subsahariana. Un’analisi della Banca Mondiale stima 46 milioni di ettari di terra fertile affittati o venduti con investimenti di questo tipo, da ottobre 2008 ad agosto 2009.

    Secondo Oxfam: “Più del 60 per cento degli investimenti in terreni agricoli da parte di investitori stranieri, tra il 2000 e il 2010, sono stati effettuati in Paesi in via di sviluppo afflitti da gravi problemi di carenza alimentare. Circa i due terzi di questi investitori progettano di esportare all’estero tutto ciò che producono da questi terreni. Quasi il 60 per cento di questi investimenti, inoltre, mirano a produrre risorse da utilizzare per biocombustibili”. Sono pochi gli investimenti di questo tipo che beneficiano le popolazioni locali, anzi “spesso i terreni non vengono utilizzati per alcuno scopo, gli speculatori aspettano semplicemente che il loro valore salga, per poi rivenderli”.

    Gli investimenti in terra fertile africana sono aumentati esponenzialmente negli ultimi anni, anche a causa della crisi dei prezzi alimentari del 2007-2008. L’Arabia Saudita, gli Stati Uniti, la Corea del Sud, la Cina e l’India sono tra i Paesi più attivi su questo fronte, sia attraverso agenzie governative, sia con aziende private. La maggior parte delle acquisizioni avvengono invece in Sudan (1,5 milioni di ettari ceduti), Etiopia, Mali, Madagascar e Liberia (circa il 30 per cento del territorio della Liberia è stato ceduto in concessioni nei 5 anni passati).

    I terreni vengono solitamente messi in affitto per un periodo che varia dai 25 ai 99 anni,spesso a prezzi irrisori. Questo processo viene in gran parte aiutato dal fatto che la maggior parte della terra spesso appartiene legalmente ai governi: uno studio del 2003 della Banca Mondiale dimostra come la debolezza e la scarsa definizione dei diritti legali di proprietà per i piccoli agricoltori sia alla base di molti episodi di land grabbing.

    Uno degli episodi che ha ricevuto più attenzione a livello internazionale è quello avvenuto in Etiopia lo scorso gennaio (nella regione di Gambella, nella parte occidentale del Paese), quando circa 70 mila persone sono state trasferite con la forza dalle loro terre. Secondo Human Rights Watch il governo etiope ha ceduto circa 3,6 milioni di ettari tra il 2008 e il 2011, giustificando la cacciata degli abitanti delle aree colpite con il cosiddetto ‘villagisation program’, un programma di ricollocamento che mira a trasferire la popolazione in nuovi villaggi dotati di ‘servizi essenziali’.

    Nel caso di investimenti associati al land grabbing, gli accordi fra acquirenti e governi sono spesso negoziati in segreto, con pochi funzionari di alto rango coinvolti, e i termini dell’accordo vengono solitamente tenuti confidenziali. Molti tra gli abitanti delle aree cedute non vengono a conoscenza del tutto fino al momento in cui sono obbligati con la forza ad abbandonare le proprie abitazioni, spesso senza nessuna compensazione.

    Per usare le parole di Nyikaw Ochalla, un etiope di etnia Anuak originario del Gambella: “Le compagnie straniere arrivano con i loro uomini in grande numero, privando la gente della terra che hanno abitato per secoli. Non c’è alcuna consultazione con la popolazione indigena. Gli accordi sono fatti in segreto. L’unica cosa che la gente locale vede sono i trattori che arrivano a cacciarli”.

    Una delle motivazioni principali addotte con regolarità dai governi che cedono parte del proprio territorio sovrano è il tema dello ‘sviluppo’: nel caso dell’Etiopia, la compagnia saudita responsabile dell’evizione di gennaio (Saudi Star Agricultural Development) ha promesso di creare posti di lavoro, strade, scuole e nuove infrastrutture per la popolazione. Rimangono come risposta le numerose testimonianze raccolte nell’arco del 2012 di molti abitanti del Gambella rimasti vittima di abusi e torture da parte dell’esercito etiope.

    Uno studio del 2010 a opera dell’Indipendent Evaluation Group (Ieg), l’organo di monitoraggio ufficiale della Banca Mondiale, afferma che il 30 per cento dei progetti della Banca Mondiale stessa hanno avuto come conseguenza un ricollocamento forzato della popolazione, con più di un milione di persone colpite. Secondo Oxfam, la Banca Mondiale ha triplicato negli ultimi anni la somma destinata a finanziare quei maxi-investimenti in terra fertile che sono alla base del land grabbing (tra i 4,5 e i 6 miliardi di euro circa).

    Secondo Barbara Stocking, chief executive di Oxfam, “La Banca Mondiale può avere un ruolo fondamentale nell’impedire che il land grabbing diventi uno dei maggiori scandali del secolo. Gli investimenti dovrebbero rappresentare una buona notizia per i Paesi in via di sviluppo, e non condurre ad altra povertà, fame o problemi per la popolazione”.

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