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    La vita di un’afgana

    La storia di Souriya, tra le violenze domestiche e la prigione. Per aver commesso un 'crimine morale'

    Di Fausto Corvino
    Pubblicato il 17 Dic. 2012 alle 19:16 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:04

    La vita di un’afgana

    Souriya è una ragazza afgana di 27 anni. È appena uscita dal carcere, dopo avere scontato una condanna di cinque anni per essere scappata via da suo marito ed essersi resa colpevole di ‘zina’, ossia atti sessuali al di fuori del matrimonio. Porta ancora addosso i segni delle violenze subite. La sua è una storia comune in Afghanistan, dove altre 400 donne sono attualmente rinchiuse in prigione per avere commesso crimini morali.

    Quando Souriya aveva soltanto 12 anni suo fratello ha sedotto e portato via una ragazza della sua città. La famiglia della ragazza ha minacciato di rivalersi per il torto subito e il padre di Souriya ha pensato di risolvere la disputa ricorrendo alla pratica tradizionale del ‘baad’, letteralmente una compensazione. Ha offerto sua figlia in sposa a uno dei fratelli della ragazza illecitamente sedotta. Simbolo del crimine del fratello e in un certo senso oggetto della vendetta, Souriya è stata fin da subito vittima di abusi e violenze da parte dei membri della sua nuova famiglia. Dopo avere subito nove anni di maltrattamenti e avere dato al mondo tre figli, il primo dei quali a 13 anni, la giovane sposa è stata accusata dal marito di aver tentato la fuga con uno dei suoi nemici. Souriya racconta di non aver mai incontrato l’uomo che avrebbe orchestrato il suo allontanamento, almeno fino al giorno in cui è stata trascinata in tribunale al suo fianco e condannata a scontare cinque anni in prigione. Il giorno dell’arresto era incinta per la quarta volta, non le hanno concesso di partorire fuori dalla cella e il bambino è morto tre settimane dopo.

    Oggi Souriya è una donna libera ma ancora non riesce a capire perché abbia dovuto scontare 14 anni di abusi per un crimine morale, quello commesso dal fratello, cui lei non ha mai partecipato. “Il baad è un modo sbagliato di risolvere le dispute”, dice Souriya, “ma se queste cose devono accadere per forza, almeno dovrebbe esserci un accordo tra le famiglie affinché l’oggetto della compensazione non diventi un pretesto per sfogare la rabbia”. La storia di questa ragazza apre uno squarcio sulla condizione delle donne in l’Afghanistan, dove la legislazione nazionale copre come un velo antiche pratiche tribali ancora diffusissime. Il ‘baad’ è diventato illegale soltanto pochi anni fa, dopo l’approvazione, nel 2009, della legge per “l’eliminazione della violenza contro le donne”, ma continua ad essere una pratica molto comune, e nella maggior parte dei casi si trasforma in vero e proprio traffico di ragazze minorenni. Le Nazioni Unite stimano che il 57 per cento dei matrimoni in Afghanistan coinvolge un individuo al di sotto dei 16 anni. Una percentuale di unioni che varia tra il 70 e l’80 per cento avviene senza il mutuo consenso. L’87 per cento delle spose racconta di aver subito almeno un episodio di violenza sessuale, fisica o psicologica. Ovviamente la condizione di queste donne è resa ancora più dura dall’assenza di qualsiasi forma di assistenza statale e dalla ritrosia delle famiglie di origine ad accettare eventuali richieste di aiuto.

    Il matrimonio forzato è una trappola da cui è impossibile fuggire. In teoria non esiste alcuna norma che impedisca a una donna di scappare da una casa in cui è vittima di maltrattamenti, ma nel 2010 la Corte Suprema afgana ha stabilito che se una donna si allontana dalla casa cui è stata assegnata come sposa, si espone automaticamente ad attività come l’adulterio e la prostituzione che sono da considerare crimini. L’assunzione di base è che la donna non fugge perché maltrattata ma soltanto per consumare relazioni extraconiugali. In moltissimi casi questa tesi è anche corroborata da presunte confessioni estorte con la forza, in assenza di avvocati e firmate da donne che non sanno né leggere né scrivere. Degli anni di violenze in casa del marito non resta invece nessuna traccia legale. Per esempio, quando il giudice che si occupava del caso di Souriya ha chiesto se fosse stata condotta un’indagine sugli abusi denunciati dalla ragazza durante nove anni di matrimonio, la pubblica accusa ha risposto così: ”Probabilmente no. Probabilmente non ci sono prove. Probabilmente la donna ha mentito, altrimenti qualche prova sarebbe saltata fuori. Tutti gli indizi provano che lei ha sempre avuto un comportamento cattivo, e questo è contro la nostra cultura. Il marito ha buone ragioni per non concederle fiducia”.

    Souriya non è più in carcere, ma altre 400 donne afgane sono ancora lì. Molte hanno semplicemente cercato di sottrarsi a un destino di schiavitù impostogli dalle loro famiglie. Altre, come Souriya, non hanno neppure tentato la fuga. Alcune sono state stuprate, e poi punite per essere state stuprate. Altre ancora sono state costrette dalla famiglia del marito a guadagnare soldi in bordelli improvvisati ai bordi delle strade. La polizia le ha poi incriminate per avere fatto sesso con degli sconosciuti. Tutti ‘crimini’ per cui una donna afgana può finire in prigione.

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